RISPOSTA DI UNA MALATA CRONICA ANTISPECISTA AGLI STUDENTI DI PARMA E DI TORINO, FAVOREVOLI AL PROGETTO LIGHT UP

Car* studenti,

ho letto con interesse la vostra lettera aperta, sperando di trovare spunti di riflessione differenti da quelli triti e ritriti in cui mi sono imbattuta nel corso degli anni, ma ahimè con disappunto ho notato che la narrazione che proponete resta quella ormai a me ben nota, e ho deciso pertanto di scrivervi queste poche righe di risposta, nella speranza di arricchire la vostra riflessione con il mio punto di vista di malata e attivista antispecista.

Mi presento brevemente, sono da molti anni un’attivista femminista e antispecista e sono anche una malata cronica. Non credo sia importante specificare quali siano i miei problemi di salute, vi basti sapere che a tutt’oggi non prevedono una cura, e sicuramente impattano in molti modi sulla mia qualità di vita. Penso pertanto di avere il diritto di dirvi cosa ne penso di quanto da voi espresso nella lettera, anche perché, a dirla tutta, sono stufa di chi, student* o ricercator*, prende la parola per me e per chi, come me, soffre di patologie non curabili. Parlate per i “poveri malati” ma non siamo tutt* uguali: ci sono persone che, pur di guarire (o illudersi di guarire) farebbero di tutto, e quando dico di tutto intendo non solo che appoggerebbero la sperimentazione animale, ma probabilmente sarebbero disposte anche a sacrificare altre persone (che reputano magari meno importanti di loro) per raggiungere lo scopo. Io sono la prima a sapere che la sofferenza ci porta a sragionare e a pensare in certi momenti che “valga tutto” se ci permette di eliminarla, ma so anche che i momenti di disperazione passano, e che non ci definiscono. E, in ogni caso, so che non tutti i malati sono così.

Io ad esempio non sono così, e se mi chiedeste quello che voglio, vi direi che desidero uno sviluppo scientifico che vada di pari passo con uno sviluppo morale ed etico. È ora di smetterla di pensare che si debba scegliere, etica da una parte, scienza dall’altra. I dualismi non sono produttivi, la vita e le scelte delle persone sono colme di sfumature, trovare l’equilibrio è come camminare su un filo sottile… ma è l’unica cosa che valga la pena cercare con tutte le forze. La scienza non è onnipotente, è uno strumento creato dall’essere umano che può essere usato molto bene ma anche molto male.

Chi è malato sa che l’essere umano non è onnipotente e che ci sono dei limiti che non possono essere superati. Chi è malato ha bisogno di molte cose, certamente della ricerca, purché etica, ma non solo: si parla sempre e solo di ricerca, anche perché smuove interessi economici enormi (non fingiamo di non saperlo), ma si parla pochissimo, per non dire quasi nulla, di sostegno a chi è malato. La persona malata ha bisogno di essere aiutata nel quotidiano, di non essere discriminata, di non essere lasciata sola, di sostegno economico e di tutto quanto può dare un senso alla vita, e anche alla sofferenza. Se potessi scegliere, preferirei con tutte le mie forze sapere che la società fa di tutto per sostenermi nelle mie difficoltà quotidiane e non mi discrimina nella mia malattia, piuttosto che sapere che quelle preziose risorse saranno utilizzate per torturare altri esseri viventi, esseri che come me aspirano a una vita libera e felice. Io non voglio che la speranza del mio benessere e della mia felicità siano motivo di tortura per altre vite, umane o animali che siano. 

Mi addolora che degli studenti universitari, persone giovani e nel pieno della vita, abbiano già introiettato così tanto in sé stess* le dinamiche di potere, di dominio e lo specismo da essere ciechi alla realtà e alla complessità della vita umana, e in particolare della vita delle persone malate. Su di una cosa non mi sento di darvi torto: la vivisezione (le parole sono importanti, è vero, e io uso questa parola coscientemente, politicamente, così come utilizzo la parola lager al posto di CIE) è la punta dell’iceberg del dominio specista: quel dominio che rende lecito disporre dei corpi animali in qualunque modo ci garbi, per divertimento, cibo, abbigliamento, sperimentazione, e chi più ne ha più ne metta. Ed è contro questa forma mentis, contro questa narrazione che mi scaglio con tutta me stessa, con la mia vita e sulla mia pelle. Vi chiedo di non parlare per me, di non dire che “i malati lo chiedono”, io sono malata e non solo non ve lo sto chiedendo, ma anzi mi batto con tutta me stessa, da una vita, per evitarlo!

Il vostro ragionamento è così influenzato dal pregiudizio di specie che non riconoscete la violenza che usate sui corpi di questi animali, eppure parlate di violenza quando si manifesta il dissenso! Sappiate che chiunque sia oppresso non ha mai ottenuto nulla “chiedendo gentilmente”. La rabbia, il dolore e l’ingiustizia si combattono anche con la forza, con la determinazione. Non confondete forza e violenza, non sono la stessa cosa. Tutti i movimenti di giustizia sociale hanno dovuto lottare con i propri corpi e le proprie vite in prima linea per difendere ciò che è giusto, altrimenti chi mai avrebbe ascoltato la voce del più debole? Se una parola gridata, persino un insulto, è violento, cos’è un bisturi che lacera la carne?

Prendere un essere vivente capace di emozioni, sentimenti, pensiero, di provare gioia, angoscia e dolore; privarlo della libertà, degli affetti, sottoporlo a torture e dolore fisico ed angoscia psicologica per poi eliminarlo alla fine dell’esperimento è tortura, che l’essere vivente in questione sia umano o animale. E la “tortura etica” è un ossimoro. Non riconoscere il limite del nostro dominio sugli altri esseri viventi ci ha portato alle peggiori atrocità commesse dall’umanità, anche sull’umanità stessa. Ci ha portato allo sfruttamento, allo schiavismo, allo stupro, a tutto quanto di orrendo al mondo esiste. Non possiamo decidere a chi spetta una buona vita, perché in tal modo sarà sempre il più forte a decidere il destino del più debole, e queste tragedie non avranno mai fine, come dimostra l’indifferenza che mostriamo, noi europei colti e “civilizzati”, nei confronti delle popolazioni povere e oppresse, che guardiamo con indifferenza scivolare nel mare profondo mentre facciamo aquagym sulle spiagge.

Per uscire dal paradigma del dominio bisogna avere coraggio, essere disposti a non accettare ogni cosa in nome del nostro egoismo, del nostro interesse particolare; concepire l’esistente in maniera diametralmente differente, dare più che aspettarsi di ricevere, e accettare la finitezza della nostra vita. Vivere una vita etica e sviluppare la compassione significa capire che mai esisterà un bene assoluto se deriva da un male assoluto. Nessuno è perfetto e nessuno può vivere una vita completamente priva di ingiustizia, ma se tendiamo alla massima giustizia sicuramente potremo cambiare questo mondo cosi ingiusto, un mondo che oggi si basa sul dominio del più forte sul più debole, dell’oppressore sull’oppresso; non c’è nessuna causa che possa dirsi virtuosa se si basa sull’oppressione.

A volte significa fare delle scelte difficili, ma la nostra forza morale non sta nel cercare solo quanto ci conviene, ma anche quanto sappiamo essere giusto benché scomodo, in onore anche delle tante persone che, nel corso della storia, hanno scelto la via più tortuosa, rinunciando persino alla vita, per percorrere quella strada di giustizia.

Come persona che, da quando era molto giovane, vive la difficoltà di una vita “imperfetta” esigo che non vi facciate scudo della mia sofferenza come giustificazione delle vostre azioni, perché questo sarebbe un ulteriore torto a quelli che già vivo sulla mia pelle e che non ho potuto scegliere. Io desidero una scienza giusta, una scienza etica che non infligga dolore e sofferenze ad alcuno, a maggior ragione a chi è più debole, perché io so cosa significa essere debole, so cosa significa soffrire, e mai, per tutto l’oro del mondo, vorrei che altri provassero quello che provo io!

Le mie difficoltà quotidiane e la mia salute precaria non saranno mai l’alibi delle vostre scelte.

‘Gunda’: il mondo visto attraverso lo sguardo incredibile di un maiale

Traduzione di questo articolo. Grazie a Sarat per averlo condiviso.

Questo sorprendente documentario offre uno sguardo intimo alla vita di una scrofa, dei suoi turbolenti maialini, di un pollo con una zampa sola e di una mandria di mucche.

Di Manohla Dargis, 10 dicembre 2020

Cosa vedono i registi quando guardano gli animali? Non molto, a quanto pare: per la maggior parte, gli animali nei film sono uno sfondo suggestivo: un gatto solitario alla finestra, un cavallo in un prato intravisto da un’auto. A volte sono simboli, come i tanti coniglietti sacrificati dal cinema (‘La regola del gioco’ et al.). Altre volte, gli animali vengono scelti come compagni elettivi, e molti cani hanno interpretato questo ruolo sullo schermo. Eppure, anche in film come ‘Old Yeller’ e ‘Best in Show’, gli animali sono solitamente al servizio della storia umana, dei nostri sentimenti e delle nostre lacrime.

Il sorprendente documentario “Gunda” offre un altro modo di guardare gli animali. Sublimemente bello e profondamente commovente, offre l’opportunità di osservare – gli animali, sì, ma anche qualità spesso subordinate nei film guidati dalla narrazione: trame leggere,  forme e luce. La storia è apparentemente semplice: per la maggior parte dei 93 minuti, il film si concentra su una scrofa e sui suoi maialini. Per un breve lasso di tempo razzoliamo con le galline, incluso un uccello con una gamba sola straordinariamente agile. In un altro, le mucche galoppano in un campo nebbioso per pascolare, un intermezzo da sogno pastorale che nei romanzi e nei dipinti di paesaggi richiama altre rappresentazioni, ma è in realtà visivamente stupendo di per sé.

“Gunda” è il progetto appassionato del regista russo Victor Kossakovsky (“Aquarela”), che voleva realizzarlo da anni. (Finanziare film è sempre difficile; finanziare documentari come questo è eroico.) Il suo approccio è semplice ma ingegnoso. Girando in digitale e in bianco e nero, senza musica, voce fuori campo o testo sullo schermo – e neppure persone – apre una finestra intima sulla vita degli animali. La sua star, per così dire, è Gunda, una prodigiosa scrofa di età incerta che, all’apertura del film, ha appena dato alla luce una cucciolata di una dozzina di maialini. Sebbene abbia un’etichetta fissata all’orecchio, l’ampio recinto suggerisce che non si trovino in un allevamento intensivo: che sollievo.

Kossakovsky ha trovato Gunda in una fattoria norvegese non lontano da Oslo, in quello che ha definito il primo giorno di casting. A quel punto, lui e il suo team hanno costruito una replica del suo recinto in modo da girare le scene all’interno rimanendone fuori. Come si può immaginare questo escamotage gli ha consentito di cogliere il punto di vista intimo senza, presumibilmente, disturbare troppo gli animali. (Kossakovsky ha affermato di aver usato una palla da discoteca fissa – mai inquadrata, ahimè – per illuminare l’interno.) Sono state montate anche delle rotaie per effettuare le riprese in esterna, in modo da poter seguire Gunda e la sua cucciolata mentre legano tra loro, giocano, vagano e prendono il sole all’aperto.

I risultati sono affascinanti. Il film si apre con Gunda che si distende (il passatempo preferito) su un letto di fieno, il suo corpo all’interno del recinto e la sua testa incorniciata sulla soglia. È il paradiso dei maiali. Kossakovsky – che ha condiviso il lavoro con Egil Haskjold Larsen – tiene fissa l’inquadratura abbastanza a lungo da permetterci di ammirarne i dettagli precisi e la simmetria compositiva. E poi: azione! Di fronte alla telecamera, un maialino delle dimensioni di una delle orecchie di Gunda si arrampica sopra la sua testa tra mille stridii e scivola sul fieno all’esterno. E poi, mentre la mamma grugnisce ritmicamente, un altro maialino, e poi un altro, scalano la sua testa enorme e rotolano nel mondo.

Non sembra succedere molto altro, oltre a strilli e adorabilità. Eppure la sobrietà della scena è ingannevole, il che può dirsi per l’intero film. I neonati di qualsiasi specie tendono ad essere deliziosi, e i maialini – nella loro piccolezza e affascinante goffaggine – occupano naturalmente il centro della scena. Le loro dimensioni minute attraggono, e allo stesso tempo mettono ansia. Sono così piccoli, e la loro mamma è tanto, tanto grande. Kossakovsky non sta raccontando una storia ovvia, ma sta comunicando oceani di significato da un punto di vista cinematografico, e usa le immagini per creare associazioni a cascata, a partire dai maialini che emergono dalla porta oscura, un’eco visiva della nascita stessa.

Condividiamo una parte della vita di Gunda e dei suoi maialini, momenti di dramma silenzioso, giochi felici e tensione da mangiarsi le unghie. Kossakovsky ha girato il film per diversi mesi, quindi i maialini diventano sempre più grandi, anche se mai – e non a caso, come si scoprirà più avanti – molto grandi. Nelle scene dei maiali, e anche in quelle dei polli che razzolano, Kossakovsky tiene per lo più la telecamera alla loro altezza, piuttosto che osservarli dall’alto in basso. Mentre Gunda solca la terra con il muso, ti accorgi di quanto sia diverso il mondo, persino il terreno, dal punto di vista peculiare di questi esseri. Queste immagini sono la testimonianza che vedere, vedere davvero, attraverso gli occhi degli altri, a quattro zampe o meno, significa essere davvero umani.

Kossakovsky non esprime giudizi, ma ‘Gunda’ ci ricorda che la resistenza a mostrare animali nella maggior parte dei film riflette la realtà del fatto che non li guardiamo più, per prendere in prestito un pensiero del critico John Berger. Svela anche la nostra riluttanza a riconoscere l’abuso a cui sottoponiamo le altre creature e, per estensione, il mondo naturale. Ad esempio, è incredibilmente facile mangiare carne; nel mondo sviluppato, richiede poca riflessione, sforzo o denaro. È più difficile, e sicuramente più scomodo, pensare alla violenza insita nella sua produzione, ivi compresa la devastazione ambientale. Tagliati ormai fuori dal mondo naturale, classifichiamo gli animali in gran parte come animali domestici o carne.

Nel commovente e profetico saggio del 1977 ‘Perché guardiamo gli animali?’, Berger prende in considerazione i tragici costi della presunta marcia dell’umanità verso il progresso, e l’allontanamento dal mondo naturale. ‘Supporre che gli animali siano entrati per la prima volta nell’immaginario umano come carne o cuoio o corna significa proiettare un atteggiamento del XIX secolo all’indietro attraverso i millenni’, scrive Berger. ‘Gli animali sono entrati nella nostra immaginazione per la prima volta come messaggeri e promesse.’

Gli animali erano nostri compagni nelle caverne. Li abbiamo guardati negli occhi e loro hanno guardato noi. Col passare del tempo, abbiamo operato nei confronti degli animali – e della natura stessa – una rimozione enorme. Abbiamo smesso di guardarli. Tuttavia, come ci ricorda Kossakovsky anche se ci risparmia l’orrore del mattatoio, dobbiamo guardare gli animali negli occhi per affrontare con onestà quello che gli abbiamo fatto.

Perchè non esiste il “razzismo al contrario”

Una mia traduzione uscita su Intersezioni, il blog sul quale scrivevo qualche anno fa. E’ ancora terribilmente attuale, perciò la ripropongo.

In qualsiasi discussione sul razzismo e il suo supposto “contrario”, è fondamentale prendere le mosse dalle definizioni di pregiudizio e discriminazione, in modo da porre le basi per una comprensione contestualizzata del razzismo. C’è una buona ragione dietro all’esistenza di questi termini, e un’ottima ragione per non confonderli, come dimostrerò più avanti.

Il Pregiudizio è un sentimento irrazionale di avversione per una persona o gruppo di persone, di solito basato su stereotipi. Praticamente chiunque sperimenta una qualche forma di pregiudizio, rivolto ad un gruppo etnico o religioso o una tipologia di persone, come quelle bionde, o grasse o alte. Ciò che conta è che semplicemente quelle persone non le/gli piacciono – per farla breve, il pregiudizio è un sentimento, una convinzione. Puoi avere dei pregiudizi, ma comportarti comunque in modo etico se fai attenzione a non comportarti seguendo le tue idiosincrasie irrazionali.

La Discriminazione ha luogo nel momento in cui una persona mette in atto il proprio pregiudizio. Questa parola descrive quei momenti nei quali una persona decide, per esempio, di non dare il lavoro ad un’altra persona per via della razza o dell’orientamento religioso di quest’ultima. O per il suo aspetto (esiste una forte discriminazione ad esempio, quando si tratta di assumere donne non attraenti fisicamente).  Puoi discriminare, a livello individuale, una persona o un gruppo, se ti trovi in una posizione di potere rispetto alla persona oggetto della discriminazione. Le persone bianche possono discriminare le persone nere, e le persone nere possono discriminare quelle bianche quando, ad esempio, una delle due persone è l’intervistator@  e l’altr@ è l’intervistat@ in un colloquio di lavoro.

La parola Razzismo, tuttavia, descrive modalità di discriminazione istituzionalizzate e rese “normali” all’interno di una intera cultura. E’ basato sulla convinzione ideologica che una “razza” sia in qualche modo migliore di un’altra “razza”. Non è più una singola persona che discrimina a questo punto, ma un’intera popolazione che opera in una struttura sociale che rende davvero molto difficile ad una persona non discriminare.

Un esempio lampante è quello delle culture schiavistiche, nelle quali le persone nascono in società in cui una tipologia di individuo è “naturalmente” padrona, e un’altra tipologia è “naturalmente” schiava (e a volte nemmeno considerata una persona, ma una bestia da soma). In una cultura simile, la discriminazione informa il tessuto sociale, economico e politico, e le/gli individu@ – anche quell@ “liber@” – non hanno realmente scelta rispetto alla possibilità o meno di discriminare, poiché anche se non credono nella schiavitù, interagiscono ogni giorno con le/gli schiav@, e le leggi e consuetudini esistenti che tengono le/gli schiavi in soggezione.

In una società razzista, è necessaria una grande dose di coraggio e volontà di sottoporsi a scandali o persino pericoli per uscire dal Sistema e diventare abolizionist@. Non è “colpa” di ciascun singolo membro della classe dominante se esiste la schiavitù, e alcun@potrebbero persino desiderare che essa scompaia. Ma la realtà è che ogni singolo membro della classe dominante ottiene benefici dal lavoro gratuito degli schiavi a tutti i livelli della società, per il semplice fatto di non poter evitare di consumare prodotti derivanti dalla schiavitù, o di beneficiare dello sfruttamento del lavoro schiavistico. Così, a meno che i membri della classe dominante non reagiscano opponendosi al sistema cercando di rovesciarlo (ad esempio, le/gli abolizionist@ della schiavitù), saranno complici nel Sistema schiavistico: anche le/gli abolizionisti avranno dei vantaggi – contro la propria volontà – dal sistema schiavistico, indossando abiti o utilizzando oggetti prodotti da tale sistema.

Quello summenzionato è un esempio estremo, ma chiaro, che utilizzo per rendere più semplice la comprensione delle situazioni molto più ingarbugliate e complesse nelle quali ci muoviamo oggi. Nonostante il fatto che le/gli schiav@ furono liberat@ dal Proclama di Emancipazione, e che il quattordicesimo emendamento ha dato alle/gli Afroamerican@ il diritto di voto, le strutture istituzionali del razzismo non sono state rovesciate. Anche dopo l’approvazione del quattordicesimo emendamento, le persone bianche avevano ancora il potere di togliere a quelle nere il diritto al voto attraverso l’istituzione della tassa di voto (poll tax), la Clausola del Nonno (Grandfather clause) e la clausola di “comprensione” che richiedeva che le/i ner@ dovessero recitare qualsiasi passo della Costituzione che venisse loro richiesto. Negli anni ’60, vennero votati gli atti di tutela dei diritti civili di voto, che abbatterono questi ostacoli al voto. Ma le/i ner@ americani non hanno ancora potere politico in proporzione alla propria presenza numerica all’interno della popolazione (nonostante un Presidente nero).

Se si prendono in considerazione istituzioni importanti quali Senato e Congresso Federali e Statali, o le corti supreme Federali e Statali, o la lista dei CEO delle società più importanti, o qualsiasi altro ente che detenga un potere reale negli Stati Uniti, pochissimi sono le/i ner@ che ne fanno parte (e in alcuni casi, proprio nessun@).  E delle/dei pochi ner@ che ne fanno parte, la maggior parte non rappresenta il punto di vista della maggioranza delle persone nere del paese, ma quelle della maggioranza bianca. D’altro canto, se si prendono in considerazione le persone nere povere, o in prigione, o disoccupate, o prive del diritto all’assistenza sanitaria, il loro numero in queste categorie è di gran lunga maggiore in proporzione a quello nella società nel suo complesso.

A meno che non si voglia sostenere che le persone nere siano “naturalmente” inferiori alle bianche (il che rappresenta una posizione apertamente razzista), bisogna ammettere che esiste un qualche meccanismo che limita le opportunità a queste persone. Questo meccanismo è ciò che chiamiamo “razzismo” – i sistemi di leggi e regolamenti economici, sociali e politici che nel loro complesso discriminano, apertamente (attraverso per esempio la profilazione razziale) o in maniera subdola (ad esempio quando maggioranze di governo bianche definiscono i distretti di voto, in modo che la maggioranza nera sia divisa e non possa avere il potere elettorale di votare candidat@ ner@; o banche gestite da bianchi che utilizzano i codici di avviamento postali come criterio per escludere richiedenti di mutui o prestiti, e “casualmente” si trovano ad escludere tutta la maggioranza nera di un quartiere cittadino, pratica conosciuta come red-lining). Sarebbe possibile andare avanti per ore enumerando tutti questi svariati meccanismi, e sicuramente potete immaginarne anche voi nella vostra esperienza, funzionali a discriminare ner@, ispanic@, arab@, nativ@ american@, ecc.ecc.

In merito al “razzismo al contrario”.

E’ cruciale conservare la distinzione tra i tre termini enunciati più sopra, perché altrimenti le persone bianche tendono a ridefinire la “discriminazione” come “razzismo”. Il loro argomento principale è che poiché sia le persone bianche che quelle nere possono discriminarsi a vicenda, il “razzismo al contrario” è possibile. Ma la verità sta nel fatto che le persone nere: 1) hanno molte meno occasioni di discriminare le persone bianche rispetto al caso contrario 2) le persone nere non hanno un sistema di supporto istituzionalizzato che le protegga nel caso decidano di discriminare le persone bianche.

C’è voluto lo sforzo congiunto di persone nere e bianche – durato un centinaio d’anni – per realizzare programmi come Affirmative Action negli Stati Uniti, ma è bastato un solo uomo bianco (Alan Bakke) e un solo caso giunto alla suprema corte per smantellare quei programmi sulla base dell’idea di costui di non essere stato ammesso alla scuola di medicina per via del suo essere bianco.

Il “Razzismo al contrario” dovrebbe pertanto descrivere una società in cui le leggi e i ruoli fossero rovesciati. Questo non è mai successo negli Stati Uniti, nonostante molt@ ideolog@ di destra lamentino di essere vittime dei pochi punti di uguaglianza che le minoranze e le donne sono riuscite ad ottenere. Le persone bianche che si lamentano del “razzismo al contrario” si lamentano in realtà del vedersi negati i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti. Si sentono in diritto di essere assunte, ad esempio, e non vedersi discriminate, anche se la norma è che siano le/ bianch@ a discriminare le persone nere. Se, in un caso isolato, un datore di lavoro nero discriminasse un/@ bianc@, non si tratterebbe del “contrario” di qualsiasi cosa, ma di discriminazione. Significherebbe essere condannat@ a prescindere, ma non rappresenterebbe la prova di qualche piano sistematico volto alla spoliazione dei diritti dei bianchi.

La destra ha reso popolare il termine “razzismo al contrario” perchè è furiosa di vedere messo in discussione il proprio privilegio bianco. Chiunque utilizzi quel termine, sia di destra o meno, sostiene la causa della destra. Questo è quanto affermo di fronte a quei Democratici e Progressisti che utilizzano tale termine – non solo stanno usando un termine sbagliato, ma stanno aiutando i propri avversari politici.

Queste argomentazioni si possono estendere a qualsiasi struttura di oppressione istituzionalizzata che riguardi la razza, l’etnia o il gruppo religioso di appartenenza, e può essere utilizzata anche nei confronti del cosiddetto “sessismo al contrario”.

Spero che questo post vi abbia chiarito un po’ le idee.

Creare la rivoluzione: intervista ad Aph Ko

Intervista originale qui. 

Per acquistare il libro Afro-ismo di Aph e Syl Ko e sostenere il lavoro di traduzione militante di feminoska, clicca qui.

La genesi di questa intervista è lunga e tortuosa. Comincia qualche anno fa, quando un’amica racconta a me e a mia moglie di questa straordinaria studente vegana che si chiama Syl. Qualche anno dopo, Syl è diventata una cara amica e sua sorella Aph pubblica un articolo sul perché i diritti animali sono una questione femminista.

Piccoli tunnel spazio temporali come questi si aprono continuamente nel cyberspazio, e scoprire dove conducano è non solo interessante ma anche importante per il proprio percorso. Da scrittore e mediattivista, sono affascinato e al tempo stesso turbato da quanto ha luogo nel mondo virtuale. Dopo aver letto l’articolo di Aph e aver visto la prima stagione della webserie Black Feminist Blogger, sono sceso nella tana del Bianconiglio.

Aph possiede il dono di una voce critica articolata e cristallina, e la sua prospettiva sull’interconnessione delle oppressioni e sui movimenti che la contrastano nell’ambito dell’attivismo è notevole per intelligenza e precisione. Le ho posto queste domande per conoscere meglio il suo lavoro e alcune delle conclusioni che ha tratto dal tempo che ha passato nella blogosfera.

Puoi parlarci di come sei diventata vegan? Quando è successo, e quali fattori hanno influenzato la tua decisione di smettere di prendere parte allo sfruttamento degli animali?

Sono diventata vegetariana a 16 o 17 anni, al liceo, dopo che alcuni amici mi hanno mostrato degli opuscoli della PETA (allora non sapevo ancora delle loro campagne sessiste!). Ho poi lavorato in un ristorante vegano a Irvine, in California, il Veggie Grill (era il primo in assoluto; ora è una catena di successo). Però allora non sentivo una particolare connessione ideologica con il veganismo, non lo prendevo sul serio. È stata mia sorella Syl a farmi comprendere il veganismo come concetto politico, quando avevo 20 anni. Mi regalò il libro Sistah Vegan e leggendolo compresi immediatamente il collegamento tra razzismo, sessismo e specismo e la cosa mi appassionò da subito (sono ancora ossessionata da A. Breeze Harper!)

Per un po’ è stato difficile per me essere coerente con la dieta vegana, nonostante avessi colto la questione politica che quest’ultima sottendeva, perché ero dipendente dai corpi animali come beni di consumo da tantissimo tempo. Mi resi conto che decostruire le narrazioni relative alle abitudini alimentari è difficilissimo, ma allo stesso tempo possibile e necessario.

La tua serie Black Feminist Blogger è il racconto esilarante e allo stesso tempo inquietante della realtà affrontata da una scrittrice femminista nera nella blogosfera. Sono curioso di sapere quello che pensi dello stato attuale della critica femminista nel cyberspazio e nella società in generale. Ad esempio, mi ha colpito il personaggio dell’editrice immaginaria, Marie, in particolare quando afferma “Ho eliminato le parole razzismo e supremazia bianca, sono troppo problematiche… in questa rivista vogliamo parlare dei problemi delle donne”. Pensi che sia possibile ottenere cambiamenti reali (in termini di rivoluzione culturale e di connessione delle lotte) sulle questioni femministe più importanti grazie al web? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi che derivano dal coinvolgimento nel mediattivismo?

Che bella domanda! Sì, penso che si stiano facendo progressi attraverso il mediattivismo. Quest’ultimo consente a molte persone appartenenti alle minoranze oppresse di accedere a piattaforme alle quali non avrebbero probabilmente accesso, se non fosse per Internet. E, cosa ancora più importante, ci consente di connetterci tra noi. Inoltre, proprio in rete ho imparato molto sui movimenti di giustizia sociale. Perciò da una parte direi che sì, il web ha portato sicuramente ad alcuni progressi, perché Internet offre uno spazio unico di organizzazione e costruzione del movimento. D’altra parte però non credo che Internet di per sé basti a portare avanti le questioni politiche. Black Feminist Blogger mostra come il blogging sia un business, mi sono basata su alcune delle mie esperienze reali di blogging full-time. Poiché alcune persone fanno soldi con i siti Web (il che non è sempre un male, soprattutto quando ti dedichi a questioni importanti e interessanti), si vive sotto la pressione costante a pubblicare velocemente e rigurgitare gli stessi argomenti popolari più e più volte per ottenere clic. È per questo che puoi leggere 300.000 articoli su Iggy Azalea e della cellulite che ha sul culo… e se la sua accettazione della cellulite sia o meno una posizione femminista… ma chi se ne frega!

In effetti, attraverso il lavoro di scrittura freelance vedi il lato commerciale del blogging. Ho scritto per siti femministi che assoldano un gran numero di scrittrici pagate ad articolo. In realtà, alcuni di questi siti di successo inviano ogni settimana via mail alle loro scrittrici freelance spunti di argomenti popolari tra cui scegliere. A volte, devi scegliere un argomento dal loro elenco perché sanno che otterranno un maggior numero di clic sulla pagina (e i clic si traducono in denaro). Per questo motivo, l’attenzione si focalizza sulla PRODUZIONE di articoli, non necessariamente sulla scrittura di testi dai contenuti innovativi e necessari. Ho anche lavorato per siti che arruolano in particolare scrittrici di altri paesi perché le pagano meno.

È la parte peggiore del mondo online. La corporativizzazione del femminismo online sta silenziando le voci femministe radicali e indipendenti, che non possono competere con loro o con siti che guadagnano migliaia di dollari (alcune scrittrici femministe hanno persino agenti!). Per questo alcuni siti femministi hanno il monopolio del pensiero femminista, e questo mi fa davvero rabbia. Alla fine sai già che quegli stessi spazi femministi affronteranno continuamente gli stessi argomenti popolari, non perché aggiungano qualcosa di inedito alla conversazione, ma perché DEVONO scriverne per essere di tendenza, e questo alla fine è mero giornalismo. Penso che Internet aiuti le persone a diventare imprenditor* e giornalist* capaci, ma non necessariamente attivist* migliori. Si confonde l’attivismo con la capacità di promuovere se stess* e la propria scrittura.

In quanto femminista nera, quali sono i problemi principali che vorresti ricevessero più attenzione di quanto accade al momento? Quali problemi hai dovuto affrontare per portare alla ribalta certe tematiche invece delle narrazioni costruite dai media mainstream?

In generale, credo che attualmente ci troviamo di fronte una gigantesca falla a livello teorico. La maggior parte delle discussioni che hanno luogo nei canali mainstream si appropriano delle questioni critiche e le distillano. Non è possibile parlare di donne e sessualità in modo inedito per colpa dello SGUARDO MASCHILE e della CULTURA DELLO STUPRO. Le donne di colore, sia quelle con la pelle chiara che con la pelle scura, non possono parlare insieme per colpa del COLORISMO. Vengono pubblicati di continuo articoli sulle donne famose che “celebrano” le proprie curve, o che non hanno paura di mostrarsi senza trucco, ed ecco che i discorsi sono diventati inconsistenti. Sono stufa di quanto la maggior parte dei discorsi siano ormai acritici e noiosi. Le discussioni nei canali mainstream sono sempre “sicure” e igienizzate. Abbiamo bisogno di una nuova cornice entro la quale inquadrare i problemi, perché attualmente questi discorsi non servono a niente e l’unico risultato sono queste narrazioni sciatte, poco interessanti e prevedibili che non hanno alcun effetto.

Prima di tutto dovremmo smetterla di concentrarci così tanto sulle persone famose. La nostra cultura ha una fissazione malata con quello che fanno le celebrità. Forse il femminismo è stato sgradevole e scomodo  per così tanto tempo che ora cerchiamo di riabilitarlo rendendolo gradevole, e per fare questo lo stiamo distillando, schiaffando l’etichetta di femminista su qualsiasi celebrità che denuncia l’uso di Photoshop. L’enorme attenzione data alle persone famose nel femminismo deriva dal fatto che il femminismo online si sta trasformando in giornalismo di bassa lega. A causa di questa svolta giornalistica del femminismo, sempre più femministe “riportano” avvenimenti culturali e a partire da ciò fanno le proprie analisi.

Come femminista nera, vorrei parlare di più dei diritti animali e di veganismo all’interno degli ambiti femministi senza che questi ultimi vengano considerati un argomento separato. I movimenti per la giustizia sociale sono tremendamente compartimentati, sebbene la parola più alla moda della nostra generazione sia “intersezionalità”. Mi piacerebbe anche che le femministe si concentrassero maggiormente sui media digitali indipendenti, la musica indipendente, l’arte, ecc. Adoro la sensazione genuina degli spazi indipendenti e penso che questi luoghi sgangherati abbiano molte potenzialità. L’atto di creare è rivoluzionario, quindi dovremmo iniziare a parlarne un po’ di più. In generale sono convinta che abbiamo bisogno di nuove teorie capaci di tracciare il mutato panorama politico, razziale e sessuale di oggi.

In un recente articolo per Everyday Feminism spieghi perché i diritti animali sono una questione femminista. Secondo te, perché è ancora necessario affrontare questo argomento negli ambiti femministi (cosa si nasconde dietro alla disconnessione tra femministe e altri animali)?

Attualmente molti movimenti per la giustizia sociale prosperano utilizzando parole d’ordine e mantra vuoti, piuttosto che attraverso l’azione autentica. Per questo motivo, è più in voga imparare la lingua del movimento in modo da “apparire” in grado di comprenderlo, piuttosto che agire nella pratica. Quando si comprendono davvero le motivazioni alla base della politica cambia il modo di vivere, non solo le frasi che portiamo scritte sulle magliette.

Alcune persone gridano #blacklivesmatter per via dell’omicidio di Mike Brown, ma non sanno il nome di un autore nero, un filosofo nero, un prodotto multimediale indipendente nero, un artista nero, ecc. È uno slogan vuoto. Ironia della sorte, ci sono femministe che gridano “il personale è politico” ma non si rendono conto che il cibo che consumano è il prodotto di un sistema di oppressione gigantesco.

L’intersezionalità oggi si rivela un fiasco in molti ambienti perché resta collegata a una prassi inesistente. L’incapacità di alcune femministe di lottare per i diritti animali dimostra quanto siano radicate in noi gerarchie oppressive e problematiche, anche nella psiche dei soggetti oppressi. Alcune persone oppresse hanno difficoltà ad ammettere di essere agenti oppressivi di altri soggetti. Sfortunatamente, capita sovente che i gruppi oppressi siano incapaci di comprendere di non essere gli unici corpi ad essere oppressi, e qualsiasi stimolo a rivolgere l’attenzione su altri oppressi viene immediatamente accolto con rabbia e frustrazione. Questa reazione è la dimostrazione della mia affermazione che le persone non capiscono davvero l’intersezionalità… o forse non ci hanno riflettuto sopra abbastanza.

Penso anche che per come è strutturato lo spazio online, in cui chiunque può aprire il proprio blog e scrivere quello che gli pare, tutt* si sentono espert* di femminismo. Molte persone criticano, poche sono inclini a imparare (anche io quando ho iniziato a bloggare ero una stronza testarda). Come ho affermato in un’intervista al Daily Beast, le persone amano criticare e sollevare problemi, ma non vogliono riflettere davvero sulle questioni perché questo potrebbe implicare un reale cambiamento, e poiché la nostra cultura prospera sulla “comodità”, “cambiamento” resta semplicemente la parola colorata su un poster di John Lennon appeso al muro, non la politica che costituisce il fondamento della tua vita.

Insieme al PERCHÉ, puoi parlare del COME? In che modo il femminismo può prendere più seriamente l’oppressione degli altri animali, creando una strategia globale e intersezionale per combattere l’oppressione?

Ironia della sorte, abbiamo già una teoria che sostiene i diritti animali e il veganismo, dobbiamo solo metterla in pratica. Tutte le femministe sanno cos’è “l’intersezionalità” ma devono essere in grado di applicarla a corpi il cui aspetto differisce dai propri. Si tratta solo di farlo. Sovente, nei movimenti di giustizia sociale, feticizziamo l’attivismo o pensiamo che si tratti di far cambiare le altre persone. Invece devi partire da te. Le femministe in generale hanno ormai ben chiaro che il corpo è un’entità politica, quindi non ci sono più  scuse.

Viviamo in una cultura in cui tutt* parlano di “body positivity”, ma le femministe sono disposte a parlare del proprio corpo fintantoché l’argomento trattato è una narrazione superficiale sul concetto di bellezza; quando invece si tratta di modificare la propria dieta per tenere conto dei corpi degli animali, sorgono mille problemi, saltano fuori frasi come “alcune persone non possono diventare vegane perché vivono in povertà o per motivi culturali”; e quando rispondo “Alcune persone non hanno la possibilità di diventare vegane… ma tu ce l’hai!”, scende il silenzio (per inciso, sono consapevole che non tutte le comunità hanno la possibilità di diventare vegan. Tuttavia, parlo principalmente delle migliaia di persone che possono diventare vegane, ma non lo fanno).

In seguito alla pubblicazione del mio articolo sui diritti animali su Everyday Feminism, tantissime femministe si sono incazzate con me e mi hanno inviato messaggi davvero cattivi, dicendomi che ero ridicola o che non ero una vera femminista perché le vite degli animali non sono importanti quanto quelle delle donne. Alcune erano così ostili che ho riletto il mio articolo più volte, per capire cosa avessi detto di così terribile. Non avevo idea che i diritti animali fossero un argomento tanto controverso nel contesto femminista. L’idea, mai messa in discussione, che i corpi animali “valgano meno” si basa sugli stessi sistemi gerarchici che le femministe combattono per ottenere i propri diritti. È la sintesi di quanto sia ironico tutto questo e, sebbene frustrante, un ottimo spunto per un’altra webserie! Questa risposta negativa rivela quanto siano maldestri e poco efficaci alcuni tentativi del femminismo di ottenere la “liberazione”.

Per essere un attivista devi AGIRE. È una lotta (anche con se stess*). Certo, rinunciare alla carne e al formaggio può sembrare la fine del mondo, ma quella sensazione di fatica personale è necessaria per il movimento. Tutt* sanno che gli animali vengono torturati e massacrati, ma molte persone non riescono a rinunciare alla carne perché “ha un buon sapore”; Quanto credi nella giustizia sociale se le tue papille gustative sono più importanti della vita di un altro essere?

L’attivismo non è comodo, e i movimenti per la giustizia sociale devono essere permeati da una maggiore empatia. Non ti senti ridicol* ad aspettarti che i gruppi dominanti comprendano la tua condizione oppressa, quando hai la carne di un altro essere incastrata tra i denti?!

Rivolgendo l’attenzione al veganismo e ai diritti degli animali, quali sono secondo te i fallimenti più evidenti del movimento nel tentativo di raggiungere individui non bianchi e non benestanti? Quali passi concreti devono essere fatti per rendere il veganismo più inclusivo, sia in termini di narrazione che di sensibilizzazione e sostegno?

La retorica dell’inclusività ci pone di fronte un problema fondamentale. Molte persone (me compresa) sostengono che la retorica della diversità e dell’inclusività serva a sostenere e rafforzare la supremazia bianca.

La tua domanda presuppone che non ci siano già persone di colore nel movimento e ci tengo a farti notare che, così posta, esclude le persone non bianche dal movimento a livello di narrazione. Di quale “movimento per i diritti animali” stai parlando? La tua domanda naturalizza la bianchezza come norma, ragion per cui la trovo problematica! Presumo che tu ti riferisca alle organizzazioni per i diritti animali prevalentemente costituite da bianchi, quelle la cui “bianchezza” è implicita, anche se raramente viene menzionata. Usando il termine ambiguo “movimento per i diritti animali” come se fosse incentrato sulla bianchezza, stai cancellando (e questo è ironico!) i non bianchi e il nostro attivismo, ma risponderò comunque alla domanda che penso tu volessi pormi.

Non mi sembra che il movimento bianco per i diritti animali bianchi abbia fallito nell’includere le persone non bianche perché ciò presupporrebbe che in primo luogo si prefiggesse di accoglierle, cosa che non ha fatto. Non vedo la mia esclusione dal movimento come accidentale. Possiamo prendere spunto dai modi in cui le femministe nere hanno focalizzato l’attenzione recentemente sul “femminismo bianco”, per tentare di risolvere questi problemi negli spazi tradizionalmente dedicati ai diritti animali, perché penso che si tratti di qualcosa di più di una questione retorica.

Per troppo tempo il “femminismo tradizionale” è sembrato focalizzarsi esclusivamente sulle donne bianche, ignorando completamente i modi in cui le donne di colore erano oppresse dal patriarcato in modo differente. Il femminismo in generale sembrava ignorare gli sforzi delle attiviste non bianche. Per questo, quando la femminista nera Mikki Kendall ha pubblicato l’hashtag #solidarityisforwhitewomen, ha sottolineato in maniera brillante i modi in i questi movimenti “tradizionali” riconoscono solo l’attivismo bianco, escludendo e ignorando le lotte e l’attivismo delle persone di colore. In altre parole, “mainstream” fa rima con “bianco”.

Brittney Cooper ha scritto un BRILLANTE articolo intitolato “Feminism’s Ugly Internal Clash: Why Its Future Isn’t Up to White Women” (“Il brutto scontro interno al femminismo: perché il futuro non dipende dalle donne bianche”) per tracciare chiaramente i confini esistenti tra femminismo bianco e nero, e sottolineare che le donne nere non hanno bisogno del femminismo bianco per considerare valido il proprio attivismo. In passato esisteva la percezione del femminismo “bianco”, ma in realtà non veniva mai esplicitamente chiamato in causa. A livello di narrazione, è stata una mossa significativa. Cooper ha osservato come il femminismo bianco (o femminismo tradizionale) sia incentrato sull’uguaglianza, e il femminismo nero sulla giustizia. Sono due progetti diversi e devono essere chiamati con nomi diversi, altrimenti tutto il lavoro svolto dalle femministe nere viene ingiustamente cancellato ed oscurato dagli sforzi organizzativi delle donne bianche.

Abbiamo bisogno di una simile strategia retorica all’interno dell’attuale movimento mainstream per i diritti animali, che è escludente verso le/gli attivist* non bianch*. Parte dell’attivismo considera l’attuale movimento per i diritti degli animali come un movimento bianco, e continua a dedicarsi al nostro attivismo senza lottare per un posto al tavolo bianco. Combattere per i diritti animali e lottare per sentirsi rappresentati in uno spazio bianco sono due progetti molto diversi.

Se persone appartenenti a categorie oppresse non si uniscono ai tuoi movimenti, forse fanno già parte di un movimento che non conosci, OPPURE il tuo spazio è escludente. L’attivismo non dovrebbe focalizzare la propria attenzione su come raggiungere le persone non bianche… dovrebbe usare quell’energia per fare autocritica del proprio movimento o progetto, perché le risposte potrebbero essere lì. Patologizziamo le persone appartenenti a minoranze oppresse, chiedendoci quali siano le loro motivazioni per non unirsi a movimenti e organizzazioni che in realtà le escludono intenzionalmente. Invece di sottolineare gli sforzi messi in campo da attivist* non bianch* (che sono molt*), l’attenzione è tutta rivolta al motivo per cui queste persone non si stiano unendo alle organizzazioni bianche.

Se i bianchi comprendessero profondamente le questioni per cui combattono così appassionatamente sarebbero già inclusivi, quindi sono escludenti in modo decisamente intenzionale. Solo perché il movimento per i diritti degli animali bianchi non ci riconosce, non significa che non esistiamo. È da un po’ che ci diamo da fare!

Molti vegani neri e non bianchi stanno realizzando progetti importanti, dobbiamo permettere a questi movimenti di base di prosperare così come sono. Le persone bianche possono aiutarci sostenendo economicamente e nelle necessità concrete i movimenti di attivist* vegan* appartenenti alle categorie oppresse che non hanno la stessa visibilità delle organizzazioni bianche, piuttosto che cercare di convincere queste persone a unirsi alle loro organizzazioni, un progetto completamente diverso di appropriazione culturale. Le persone vegan di colore che si danno da fare sono molte, e questo è il movimento per i diritti degli animali che io conosco e su cui mi concentro.

Grazie per aver volto al meglio la mia domanda formulata così maldestramente! A quali progetti lavorerai nel prossimo futuro, e quali questioni sono prioritarie per te?

Attualmente sto lavorando alla seconda stagione di Black Feminist Blogger e spero di poter filmare un altro episodio della mia webserie “Tales from the Kraka Tower”. Per me, in questo momento, la cura di sé è la cosa più importante. Per continuare a dedicarmi all’attivismo, devo ricaricarmi, ed è quello che sto facendo ora.

Continuerò a sostenere i media indipendenti e intelligenti e cercherò di finire un EP con la mia band!

Grazie mille per il tempo che ci hai dedicato!

Un posto a tavola: intervista a Syl Ko sul Veganismo Nero

Intervista originale qui.

Se vuoi sostenere il lavoro di traduzione di Afro-ismo in italiano, puoi acquistare il libro qui.

Il libro è disponibile anche in formato digitale sulle più note librerie online e sul sito di Vanda.

L’ingresso del mercato di Bonsecours si trova accoccolato su un angolo di acciottolato anonimo.

Guardandolo dall’esterno non l’avreste mai detto, ma all’interno di quelle mura la sala era animata da centinaia di persone giunte lì per il Montreal Vegan Festival. Una delle sedici relatrici ospiti, Syl Ko, coautrice insieme alla sorella Aph di Afro-ismo: Cultura pop, femminismo e veganismo nero (pubblicato il 27 maggio 2020 da Vanda edizioni), era lì per presentare uno dei suoi lavori, intitolato The Myth of the Animal Within.

Il libro affronta le implicazioni dell’invenzione coloniale dell'”animale”, categoria che è stata imposta sia agli esseri umani che agli animali, e la conseguente oppressione che coinvolge principalmente le minoranze umane e gli animali non umani. L’animalità è diventata l’arma razzializzata della supremazia bianca. Equiparare neri ed animali, mediante l’uso del linguaggio coloniale, ha consentito la loro disumanizzazione, e proprio come gli animali sono stati cacciati a forza nello spazio “subumano” dal patriarcato suprematista bianco, i popoli razzializzati hanno subito lo stesso destino. Per questo dobbiamo rivendicare l’animalità, e tenerla in considerazione nelle nostre analisi dell’oppressione. Syl riassume perfettamente questi concetti nel quarto capitolo del libro quando afferma: “Uno dei modi più semplici di fare violenza a una persona o a un gruppo di persone, è quello di paragonarle o ridurle ad ‘animali’. In una società in cui ‘umano’ è diventato sinonimo di bianchezza, chiunque non rientri nella cornice eurocentrica viene automaticamente animalizzato”.

Una breve introduzione al Veganismo Nero

Il veganismo nero differisce dal veganismo bianco tradizionale (il veganismo “solo per gli animali”), ma ciò non significa che un modo di affrontare l’argomento sia più corretto dell’altro. Affermare che esista un modo “giusto” di essere vegan implica privilegiare un particolare punto di vista rispetto a un altro, motivo per cui molte persone nere hanno difficoltà a sottoscrivere il veganismo tradizionale. Spesso chi si trova in posizioni di potere dimentica che non tutte le persone hanno lo stesso accesso alle risorse a loro disposizione. Quindi, se le persone che vivono nei cosiddetti deserti alimentari (di solito persone di colore) vengono rimproverate e marginalizzate per non aver adottato lo stile di vita vegano, si allontanano da un movimento che non tiene conto delle loro esperienze di vita reali. Sono persone che semplicemente non hanno le stesse possibilità di accesso ai generi alimentari; invece di trattarle con disgusto e disprezzo, la maggioranza vegana deve trovare modi per migliorare l’accessibilità all’interno di queste comunità. Inoltre, dal momento che i neri lottano letteralmente ogni giorno per i propri diritti, diventa difficile per loro – giustamente – porre i bisogni altrui di fronte ai propri.

Il tokenismo (pratica che consiste nel fare un gesto esclusivamente simbolico di inclusione di membri di gruppi minoritari per creare un’apparenza di inclusività e depotenziare le accuse di discriminazione) nella comunità vegana mainstream contribuisce alla mancanza di persone di colore nel movimento. Troppo spesso le voci nere vengono soffocate o sfruttate per soddisfare un’ideale di inclusività; spesso i bianchi hanno troppo spazio in questi movimenti, e non permettono ad altre persone di avere la propria voce. Raramente ai vegan di colore viene dato spazio nelle conferenze o sui più popolari blog vegani. Sono troppe le occasioni in cui ho visto gruppi vegani twittare frasi come: “Le vite nere contano più delle vite dei polli o delle mucche… a quanto pare”. Confrontare l’oppressione dei neri e la schiavitù con il trattamento e l’oppressione degli animali non è soltanto estremamente insensibile, razzista e disumanizzante nei confronti dei neri, ma crea anche un’atmosfera di sfiducia nei confronti della genuinità della lotta contro l’oppressione. Questi sono alcuni dei motivi per cui il veganismo tradizionale diventa inaccessibile alle persone di colore e in particolare ai neri, incoraggiando così la creazione del movimento del Veganismo Nero.

Intervista a Syl Ko

Dopo aver pronunciato il proprio discorso sull’animalità in maniera calma e con parole illuminanti, Syl ha gentilmente accettato di sedersi e chiacchierare con noi. Nonostante l’argomento della conversazione non fosse dei più leggeri, l’atmosfera era lieve e invitante in quanto Syl, Andreann e io (Gemma), tre donne nere, ci confrontavamo e discutevamo senza filtri di situazioni ed esperienze che tutte e tre avevamo ben presenti.

Andreann Asibey (AA): Quando e perché sei diventata vegana?

Syl Ko (SK): Oh, wow… nessuno me lo ha chiesto. Sono diventata vegana circa sette anni fa. Ero vegetariana da molto tempo e non sapevo nemmeno cosa fosse il veganismo. Pensavo che la parola vegan fosse una roba da musica punk bianca. Non sapevo davvero cosa fosse, ma non appena ho cominciato a capirlo, ho pensato “Sono io!” Dirti perché, invece… è una domanda difficile. Non avevo davvero un motivo specifico. Immagino che il meglio che posso dire sia che sono diventata vegana perché non voglio essere il tipo di persona che non batte ciglio di fronte a quello che accade quotidianamente agli animali: a parte questo non ho alcun altro motivo.

AA: Quindi sei cresciuta in una famiglia vegetariana?

SK: No, anche se mio padre era molto sensibile nei confronti degli animali, ad esempio avevamo le galline. Era originario della Polonia e lì aveva una fattoria in cui mangiavano solo i propri animali. Voleva ricreare quella realtà qui, perché eravamo poveri ed era più facile fare così. E così ha ammazzato con un pollo, ma poi siamo diventati tutti tristi, quindi ha deciso che avremmo tenuto il resto delle galline come animali da compagnia: mio padre era così. Ricordo che una volta pensava di sparare a un falco o qualcosa del genere. C’era un animale che stava attaccando le nostre galline e voleva proteggerle, e accidentalmente sparò a un gufo. Abbiamo fatto un funerale per il gufo e ricordo che mio padre pianse per una settimana. Mio padre ha influenzato tantissimo la mia sensibilità morale nei confronti degli animali. E anche quando avevo circa sei o sette anni, quando ho scoperto per la prima volta che l’osso, in quanto osso… di pollo, era un osso all’interno del corpo di un animale, ricordo di aver passato una notte intera così arrabbiata con me stessa per non aver mai fatto la connessione. Poi ho iniziato a nascondere la carne dei nostri pasti nelle scarpe, e la buttavo nel gabinetto. E i miei genitori – perché eravamo davvero poveri – si chiedevano “Ma che cavolo butti il cibo in bagno!”. Pensavo che avrebbero fatto mille storie e invece mio padre mi ha dato un libro di Plutarco, un antico filosofo, e di Porfirio: era il suo strano modo di dire “ci sono persone che la pensano come te”. L’ossessione che ho da tutta la vita è cercare di capire quali sono i nostri obblighi nei confronti degli animali.

AA: È stato facile integrarti nella comunità vegana della tua università o ti sei trovata di fronte  degli ostacoli in quanto donna di colore?

SK: Le persone erano fantastiche, ma non ho mai sentito di far parte del movimento vegano. Anche adesso non mi considero parte del movimento vegano. Ci consideriamo in realtà pensatrici e attiviste antirazziste, e siamo convinte che antirazzismo significhi anche pensare agli animali non umani. Davvero, non mi sono mai sentita troppo coinvolta. Voglio dire, andavo ai cortei e cose del genere, ma ho sempre avuto la sensazione che forse mi volevano lì per avere la quota nera. Se sei una persona nera in uno spazio bianco è una cosa che ti affligge costantemente. Tipo: “Aspetta, lo fanno solo perché sono nera”, e già questa di per sé è una sensazione così disumanizzante che continui a metterti in discussione. Come se fossi qui solo come rappresentante di una razza o qualcosa del genere… Quindi per lo più non mi sono fatta coinvolgere, ma ho avuto la fortuna di frequentare il dipartimento di filosofia, nel quale molte persone sono vegane. In quell’ambito non andavamo ai cortei, in realtà ci confrontavamo sulle idee che avevano a che fare con gli animali. Per me è stato molto più divertente che uscire a distruggere tutto o dar fastidio alle persone nei Chipotle (nota catena di ristoranti messicani negli U.S.A., N.d.T.) e cose così. Alcuni di questi metodi non li capisco, nel senso che hanno per me poco a che fare con la liberazione degli animali. Quindi sì, ero decisamente poco coinvolta nel movimento vegano, ma mi sono sentita sempre molto coinvolta a livello intellettuale, per lo più parlando con le altre persone. Soprattutto perché non condivido un aspetto che noto in molti altri attivisti, che hanno questa visione granitica per cui “le cose devono andare così” e ”il modo di pensare agli animali è questo – e se la pensi diversamente, sei una persona orribile e non ti importa degli animali.” Non mi sento a mio agio a guardare qualcuno in faccia e dire: “No, devi fare così e così, ti dico io come devi pensare alle cose” perché io non lo so, davvero. E penso che in realtà sia una conseguenza dell’essere bianco questo atteggiamento del “Ne so più di te e ho le risposte”: io non ho le risposte, non conosco nemmeno le domande.

AA: Perché pensi che la comunità nera sia così lontana dal veganismo?

SK: Penso che il veganismo mainstream abbia un’esperienza molto diversa delle parole umano e animale. Se non sei animalizzato o non vivi in una posizione emarginata, umano e animale sono concetti molto semplici. Invece quando ti hanno già chiamato “animale”, o qualcuno un giorno ti ha detto che non sei davvero umano, che sei una scimmia o cose simili, hai vissuto sulla tua pelle questa idea coloniale dell’animale. La senti dentro di te. Quindi non dici di ‘vivere la stessa oppressione’ o di ‘avere la medesima esperienza’, ma semplicemente: “Oh cavolo, siamo tutti oppressi dallo stesso progetto [coloniale] che ci influenza in modo molto diverso”.

AA: Hai lavorato con tua sorella sul libro Afro-ismo, cultura pop, femminismo e veganismo nero. Com’è stato lavorare con tua sorella? È il primo progetto importante su cui avete lavorato insieme?

SK: Aph e io siamo migliori amiche. Negli ultimi dieci anni ci siamo sentite al telefono, via Skype e mail, confrontandoci costantemente su articoli, libri, film. La nostra amicizia si è cementata nel nostro interesse per il femminismo, il razzismo e tutto ciò che riguarda gli animali. Afro-ismo è stato prima di tutto un blog, non abbiamo scritto il libro di proposito… erano cose di cui parlavamo da un decennio, quindi questo libro è una sorta di riassunto. Lo consideriamo un diario intellettuale tra di noi; parlavamo già di queste cose prima di decidere di scriverle su un blog. Non ci aspettavamo che qualcuno se ne interessasse, ma quando è successo abbiamo deciso di trasformarlo in un libro. Lei è davvero brillante. Ho imparato di più parlando con lei che in un corso di dottorato.

AA: Come è nata l’idea? Qual era lo scopo?

SK: Ci siamo accorte dell’assenza di questa narrazione fondamentale non solo nel movimento vegan ma anche nell’antirazzismo. Voglio dire, quando prendi in considerazioni le organizzazioni nere. Abbiamo iniziato a confrontarci su Black Lives Matter chiedendoci perché ci fosse questa ossessione di parlare di razza come se riguardasse il colore della pelle, mentre non si parla mai di cosa sia veramente il razzismo, ovvero un progetto per mettere le persone le une contro le altre. Come si può parlare di razzismo o eliminare il razzismo senza parlare del dualismo umano-animale, che è il costrutto sociale che mantiene vivo il pensiero razzista? Come si fa a non accorgersi che umano e animale sono termini razzializzati? È a questo punto che abbiamo capito che gli argomenti che affrontiamo sono davvero importanti. Il libro è nato perché la risposta [al blog] è stata travolgente. A quel punto abbiamo deciso di scrivere il libro, perché tante persone volevano un libro. Non puoi elaborare un’idea come questa, che prende letteralmente in considerazione tutta la tua esperienza di persona razzializzata, non puoi comprenderne la forza dirompente leggendo dei post su un blog. Devi averlo con te di notte, devi leggerlo, rileggerlo e rifletterci su. I libri aiutano a rallentare, e a prestare attenzione. Vogliamo che le persone prestino attenzione a queste idee. Non solo per gli animali, ma perché ci teniamo davvero a liberarci dallo schifo con cui abbiamo a che fare.

AA: Puoi dirci qualcosa in più sulla tua ricerca attuale?

SK: Il modo più semplice di descriverla è che sto cercando il modo di rendere applicabile il veganismo nero, e per farlo sto affrontando altre questioni riguardanti l’oppressione degli animali. Il Veganismo Nero è una bella mossa teorica, ma ci sono molte questioni diverse a cui sono interessata. Uno degli argomenti che più mi interessa è il problema del parlare per gli animali. Molti dei gruppi oppressi parlano per sé stessi perché parlano il linguaggio di cui si ha bisogno per essere politicamente coinvolti nella società umana, e gli animali ovviamente non possono farlo. Certamente possono comunicare con noi, ma non parlano un linguaggio politico, e da questa evidenza scaturisce la domanda: è giusto parlare per gli animali? Chi parla per gli animali? E così via. Il veganismo nero fornisce gli strumenti per evitare questo problema del tutto perché non parla per conto degli animali, parla di animalità. Poi sto lavorando all’articolo di cui parlavo oggi, che riguarda le ipotesi che facciamo sul legame che dovremmo sentire con gli animali. Questo articolo ha a che fare con l’animale interiore, e utilizza il veganismo nero come modo per far emergere il modo in cui, nel momento stesso in cui parliamo di animali, non cogliamo il punto. Fondamentalmente uso il veganismo nero e lo applico alle questioni esistenti. Penso che possa rispondere a domande anche banali, per poi passare ad altro.

AA: Nella tua presentazione hai fornito tre concetti diversi in relazione alla parola “animale”. “Tutti gli umani sono animali”, “Nessun umano è animale” e “Alcuni esseri umani sono animali” – puoi spiegarci quest’ultimo?

SK: Metto insieme queste frasi, in modo che appaia ovvio come [la parola] “animale” viene usata  in modo diverso a seconda del contesto.  La stessa parola esprime diversi significati. Un esempio curioso è la parola inglese “can”. “Can” può significare capacità, può identificare una lattina e può anche essere il termine gergale per prigione. La stessa parola significa cose diverse. Con “animale” è più difficile da capire, perché la definizione e i concetti che definisce sono molto sopravvalutati. L’ho fatto apposta in modo che si veda chiaramente, senza ombra di dubbio, che esistono almeno tre significati diversi, altrimenti sarebbe semplicemente “Tutti gli umani sono animali”. Cercavo di dimostrare che [nell’ambito antispecista] ne parliamo in un modo solo, il primo, come se fossimo tutti animali. Invece la parola “animali” può essere usata per riferirsi ad esseri che non sono membri della specie Homo sapiens, o in modo “sociale”, ovvero non riferendosi all’appartenenza biologica, ma indicando qualcosa del tuo status. Il modo in cui Trump si è espresso sui Latinxs (l’appello alla polizia di liberare il paese dagli “animali” che danneggiano la comunità), non era da biologo, stava dicendo qualcosa di sociale su di loro. Se parliamo di esseri umani è facile capire cosa intendo, ma se affermo che “gli animali sono animalizzati” si crea una certa confusione. In verità sto dicendo la stessa cosa, ovvero che il modo in cui applichiamo tale categoria sociale ad alcuni umani per opprimerli, è lo stesso che utilizziamo per opprimere gli animali non umani. L’unica fonte di confusione è l’uso completamente diverso che si fa della parola “animali”.

AA: Come si può rendere meno pervasiva la narrazione bianca all’interno del movimento vegano? Chi ha la responsabilità di ridimensionare quella narrazione?

SK: Penso che sia nostra! Questa preoccupazione per ciò che i bianchi fanno e per i loro errori mi lascia sempre perplessa. Aph e io siamo infastidite dalla tendenza alla “Dear White People”; sprechiamo così tante energie per sottolineare dove i bianchi stanno sbagliando, ed è come se tutto riguardasse loro.  Lasciamo che si mettano nei nostri panni, mentre potremmo fare le cose da noi. Cerchiamo di sbarazzarci di questa narrazione coloniale secondo cui dobbiamo aspettare che i bianchi arrivino a proporre teorie al nostro posto o che i bianchi capiscano che possiamo unirci al movimento. Possiamo semplicemente fare le nostre cose, e non perché ci odiamo a vicenda o perché loro le stiano facendo male. Quello che intendo è che ci sono molti modi diversi di affrontare un problema e dovremmo poter avere la libertà di farlo da soli.

AA: In che modo il veganismo nero sfida la supremazia bianca?

SK: Il veganismo nero è una strategia antirazzista. Ecco cos’è. Se vuoi smantellare il razzismo, devi andare alla radice del razzismo, e la radice del razzismo è questa distinzione ‘sociale’ tra uomo e animale. Quindi, se vogliamo distruggere il razzismo, non possiamo farlo mantenendo lo status quo. Il veganismo nero sfida la supremazia bianca, ed è una delle poche proposte vegane esistenti che smaschera per davvero la supremazia bianca. La supremazia bianca non discrimina semplicemente le persone in base al colore della pelle. La supremazia bianca è radicata in un progetto peculiare per cui solo alcuni esseri umani sono “persone”, e tutti gli altri esseri viventi non valgono nulla, ed esistono per servire le “persone”. Il  veganismo nero si oppone in modo deciso  alla supremazia bianca perché fa qualcosa di radicale, supera le categorie razziali e va alla vera fonte del problema. Ovvero che alcune persone hanno deciso di identificarsi come “i veri esseri umani”, serviti da tutti gli altri.

AA: Un’ultima domanda: qual è il tuo posto vegano preferito?

SK: Ahh, oh wow. . . Probabilmente Veggie Grill in California. È una catena… un ottimo fast food vegano. Ho fatto uno stage a Cali solo per poter mangiare Veggie Grill per due mesi!

Il veganismo nero per le autrici dell’intervista

Vogliamo ringraziare in maniera speciale Syl Ko per il tempo che ci ha dedicato, e per aver chiacchierato in modo così aperto e onesto sul Veganismo Nero e su come significhi molto più che essere semplicemente nere e vegane. Vogliamo ringraziare Syl e Aph per aver messo per iscritto pensieri e i sentimenti che le persone marginalizzate hanno avuto per anni ma non avevano le parole per esprimere.

Per me (Gemma), nera e vegana, la proposta del veganismo nero è inedita e illuminante. Ho seguito a lungo il veganismo mainstream e concentrato il mio attivismo esclusivamente sugli animali. Parlando con Syl e leggendo Afro-ismo, ho potuto utilizzare le mie esperienze di donna nera per modellare e rivedere la mia comprensione e il mio approccio all’animalismo. L’animalizzazione e la disumanizzazione hanno un ruolo importante nella giustificazione della violenza perpetrata contro i corpi neri e vengono abitualmente ignorate dal veganismo bianco mainstream. Il veganismo focalizzato esclusivamente sugli animali non basta, se le persone non si preoccupano dell’applicazione dell’animalizzazione ai gruppi emarginati. Essere nera ha plasmato la mia prospettiva in ogni aspetto della mia vita, quindi perché non dovrebbe anche modellare il mio approccio al veganismo?

Per quanto mi riguarda (Andreann), sono una persona non vegana che sta pensando di diventarlo. Sono molto incuriosita dalle proposte del veganismo nero perché tiene conto delle mie esperienze con la supremazia bianca. Ho sempre pensato tra me e me: “Come posso fare la mia parte per un movimento che afferma di prendersi cura degli animali ma che mostra platealmente di non avere nessuna cura o amore per me?” Come persona che conosce molti casi in cui i vegani bianchi e non bianchi (ma non neri) minimizzano, ignorano e negano in maniera palese la difficile situazione delle vite nere, sostenendo al contempo “l’uguaglianza di tutte le forme di vita”, il veganismo nero fornisce un approccio veramente intersezionale al movimento. Un’affermazione di Heather Barrett nell’ articolo intitolato “White veganism doesn’t care about Black lives”, sintetizza i miei pensieri sul veganismo tradizionale: “I vegani bianchi spesso sostengono l’importanza della vita degli animali, ma le loro voci restano mute quando si parla delle vite di altri umani che non hanno il loro stesso colore della pelle”. Il veganismo nero crea uno spazio sicuro per una categoria di persone costantemente spinta ai margini della società, consentendo loro di essere per una volta al centro dell’attenzione.

Afro-ismo, attraverso l’esplorazione coraggiosa del dualismo uomo-animale e del posto che questo dualismo occupa nella retorica razzista e nella supremazia bianca, è stato fondamentale nello sviluppo della nostra comprensione dell’attivismo antirazzista e dei diritti degli animali.

Il distanziamento sociale è un privilegio

L’idea che questo virus colpisca chiunque senza eccezioni è falsa

Articolo originale qui

Di Charles M. Blow

5 aprile 2020

Alla gente piace dire che il coronavirus non fa distinzioni di razza, classe o paese, che il Covid-19 è indifferente e infetta chiunque.

In teoria, questo è vero. Ma, in pratica, nel mondo reale, questo virus si comporta come gli altri, e si lancia come un missile a guida infrarossa verso i più vulnerabili della società. E questo non perché li preferisca, ma perché sono loro i più esposti, fragili e malati.

La composizione della popolazione vulnerabile di una società varia da paese a paese, ma in America la vulnerabilità si interseca potentemente con razza e povertà.

Le prime prove raccolte in varie città e stati mostrano già che la popolazione nera è colpita dal virus in modo sproporzionato e devastante. Come riportato da ProPublica, nella contea di Milwaukee, a partire da venerdì mattina, l’81% delle persone morte erano nere, e i neri rappresentano solo il 26% della popolazione di quella contea.

Per quanto riguarda Chicago, WBEZ ha reso noto che “il 70% delle persone morte per Covid-19 sono nere”, e ha sottolineato che nella circostante Contea di Cook, “Anche se i residenti neri sono soltanto il 23% della popolazione della contea, rappresentano il 58% delle morti Covid-19 “.

La scorsa settimana, il Detroit News ha comunicato che “almeno il 40% delle persone uccise finora dal nuovo coronavirus in Michigan sono nere, una dato che supera di gran lunga la percentuale di afro-americani nella regione e nello stato di Detroit”.

Se questo modello si rivelerà valido anche in altri stati e città, il virus potrebbe avere un impatto catastrofico sulla popolazione nera del paese.

Eppure, queste disparità razziali non sono state ancora prese in considerazione seriamente né dai servizi giornalistici né da parte del governo nazionale. Molti stati non hanno ancora nemmeno pubblicato dati specifici riguardanti le differenze razziali dei casi di positività e delle morti, e non l’ha fatto neanche il governo federale.

In parte per questo motivo, tutto quello che abbiamo è una disinformazione ingannevole e mortale. La percezione che si tratti di una malattia dei jet-setter, o di una malattia degli “spring breaker” o di un “virus cinese”, come al presidente Trump piace ripetere, deve essere abbandonata. L’idea che questo virus colpisca chiunque senza eccezioni è falsa.

Dobbiamo smetterla di ripetere il messaggio insensibile che la migliore difesa che abbiamo contro la malattia è qualcosa che ognuno di noi può fare, ovvero che basta semplicemente rimanere a casa e mantenere le distanze sociali.

Come ha sottolineato il rapporto dello scorso mese dell’Economic Policy Institute, “meno di un lavoratore nero su cinque e un lavoratore ispanico su sei sono in grado di lavorare da casa”.

Come sottolineato dal rapporto, “Solo il 9,2% dei lavoratori nel quartile più basso della distribuzione dei salari può telelavorare, rispetto al 61,5% dei lavoratori nel quartile più alto”.

Se tocchi le persone per vivere perché ti occupi di cura degli anziani o dei bambini, se gli tagli o acconci i capelli, se pulisci i loro appartamenti o cucini il loro cibo, se guidi le loro auto o costruisci le loro case, non puoi farlo da casa.

Stare a casa è un privilegio. Il distanziamento sociale è un privilegio.

Le persone che non possono farlo devono fare scelte terribili: restare a casa e rischiare la fame o andare al lavoro e rischiare il contagio.

E questo non succede solo qui, ma è la realtà dei poveri di tutto il mondo, da Nuova Delhi a Città del Messico.

Se vanno al lavoro, devono spesso utilizzare mezzi di trasporto di massa affollati, perché i lavoratori che guadagnano poco non sempre possono permettersi di avere un’auto o chiamare un taxi.

Così è la vita dei lavoratori poveri, o di chi vive leggermente al di sopra della povertà, ma sempre in situazione di difficoltà. Tutti i discorsi su questo virus sono imbevuti di elitismo economico. Chi commenta sui social media le immagini di autobus affollati e addetti alle consegne fuori dai ristoranti, e lancia invettive contro le persone nere e non bianche che non stanno costantemente chiuse in casa, lo fa per lo più da case confortevoli con cibo e denaro sufficienti.

Queste persone non capiscono cosa significhi veramente essere poveri in questo paese, vivere in una casa angusta con troppe persone, non avere abbastanza soldi per comprare grandi quantità di cibo o non avere un posto dove conservarlo in caso si riesca a farlo. Non capiscono cosa voglia dire vivere in un deserto alimentare, dove frutta e verdura fresche non sono disponibili e il cibo spazzatura (carente di nutrienti ed economico) esiste in abbondanza.

Queste persone si affrettano a criticare chi affolla i fast food locali per prendere qualcosa da mangiare, ma non tutti possono permettersi di ordinare da GrubHub o FreshDirect.

Inoltre, in una nazione in cui troppe persone nere sono abituate a considerare le loro vite costantemente in pericolo, l’esistenza dell’ennesimo pericolo scatena meno panico. La possibilità di angosciarsi diventa anch’essa un privilegio, possibile solo a chi raramente deve farlo.

Incoraggio vivamente chiunque possa farlo a rimanere a casa, ma sono anche abbastanza consapevole da sapere che non tutte le persone possono o lo faranno, e ciò non dimostra semplicemente un disprezzo patologico per il bene comune.

Se te ne stai rifugiato nella tua torre d’avorio, nella tua comoda strada privata o nel tuo appartamento ben arredato, e la tua più grande preoccupazione è la noia e il cibo avanzato, devi finirla di rimproverare chi si arrabatta per sopravvivere.

Non chiederò scusa per ciò di cui ho bisogno

Traduzione dell’originale I will not apologize for my needs.

Anche nel corso di una crisi, i medici non dovrebbero abbandonare il principio di non discriminazione.

Di Ari Ne’eman

Ne’eman è scrittore e attivista per i diritti dei disabili.

23 marzo 2020

I tempi di crisi ci mettono in discussione come paese. Mentre gli ospedali si preparano alla carenza di respiratori e altre risorse mediche limitate, molte persone disabili sono preoccupate di quale sarà la risposta a questo problema.

In Italia, i medici hanno già cominciato a selezionare la possibilità di accesso alle cure in base all’età e alla disabilità. Il Washington Post riferisce che molti stati americani stanno prendendo in considerazione di utilizzare analoghe misure di razionamento delle risorse. Sebbene quasi tutti concordino sul fatto che i medici possano sospendere quelle cure che difficilmente porterebbero reale beneficio ad un paziente, presto potrebbero esserci tropp* pazienti che hanno urgente bisogno di cure salvavita, e troppo poche risorse per curarl* tutt*.

Quando ciò dovesse accadere, alcun* propongono di lasciare indietro le persone disabili. Gli stati di tutto il paese hanno ripreso in mano le linee guida di cura in tempo di crisi – documenti che spiegano come vadano modificate le cure mediche di fronte alla mancanza di risorse nel mezzo di una catastrofe senza precedenti. Nonostante le molte differenze, hanno un denominatore comune e preoccupante: quando non ci sono abbastanza cure salvavita a disposizione, chi ha bisogno di più di altr* potrebbe trovarsi nei guai.

Alcune linee guida individuano condizioni particolarmente gravi, come la decisione dell’Alabama per cui le persone con disabilità intellettiva grave o profonda “sono candidate improbabili per il supporto con il respiratore” o il Tennessee, che elenca le persone con atrofia muscolare spinale (che hanno bisogno di assistenza in molte attività della vita quotidiana) tra le persone escluse dalle cure critiche.

Altre definiscono semplicemente un obiettivo generale, contando sul giudizio clinico per fare il resto. Le linee guida di redistribuzione delle risorse, emesse recentemente dal Medical Center dell’Università di Washington, sostengono che sia sensato “dare la priorità alla sopravvivenza dei pazienti giovani e sani rispetto a quella dei pazienti più anziani e cronicamente debilitati”. L’esistenza dei disabili non anziani, un gruppo sempre più preoccupato per la propria vita, non viene riconosciuta.

Le persone con disabilità hanno molte e complicate questioni in sospeso con gli esponenti della professione medica. Mentre molte persone disabili hanno bisogno di cure mediche continue, un gran numero di medici considera la vita di chi ha determinate disabilità come indegna di essere vissuta. Le persone disabili che necessitano di cure continue – come l’uso del respiratore (e altre forme costose di assistenza) per tutta la vita – sono abituate a sentirsi chiedere dai professionisti del settore medico se non preferirebbero interrompere le terapie, spesso dando per scontato che “sì” sia la risposta giusta.

Quando i miei amici e le mie amiche che hanno bisogno di queste cure finiscono in ospedale, anche in circostanze normali, chi tra noi gli vuole bene organizza molte chiamate telefoniche e visite, non solo per tenere alto lo spirito del paziente. Vogliamo inviare un messaggio ai professionisti medici: “A qualcuno importa se questa persona vive o muore. Vi teniamo d’occhio.”

Con le attuali restrizioni sulle visite e le molte fonti autorevoli che ammettono esplicitamente la possibilità di negare le cure alle persone disabili, quel messaggio riuscirà ad arrivare? Temo di no.

Anche quando la discriminazione non si basa sulla percezione della qualità della vita, ma piuttosto su considerazioni apparentemente “razionali” come quelle della disponibilità di risorse, dovremmo opporci all’idea di mettere i disabili in secondo piano quando si tratta di terapie mediche.

Le linee guida cliniche italiane stabiliscono che “la presenza di comorbilità e lo stato di salute generale” vengano prese in considerazione per decidere come assegnare le risorse, in quanto “una progressione relativamente veloce nei pazienti sani potrebbe diventare più lunga – e quindi consumare maggiormente le risorse del sistema sanitario – nel caso di pazienti anziani, fragili o con gravi comorbilità”.

Questa idea appare tanto logica quanto preoccupante: i pazienti e le pazienti con disabilità possono richiedere più risorse rispetto a chi non è disabile. Nel corso di una crisi, chi non presenta disabilità può essere salvato in modo più efficiente. Di conseguenza, quando i medici devono scegliere tra un paziente disabile e uno non disabile con livelli di necessità altrettanto urgenti, i pazienti non disabili dovrebbero avere la priorità, poiché si riprenderanno più rapidamente, e le risorse ormai scarse torneranno più velocemente disponibili.

L’adozione di tale approccio sarebbe un errore. Anche nel corso di una crisi, le autorità non dovrebbero abbandonare il principio di non discriminazione. Se si consente ai medici di discriminare coloro che hanno bisogno di maggiori risorse, forse si risparmierebbero più vite. Ma le fila dei sopravvissuti sarebbero molto diverse, polarizzate dalla parte di coloro che non avevano disabilità prima della pandemia. L’equità verrebbe sacrificata in nome dell’efficienza.

Un simile approccio non solo dà prova di un’etica opinabile, ma può anche interferire con gli sforzi per combattere la pandemia.

Nel 2015 il Dipartimento della salute dello Stato di New York ha presentato alcune linee guida su come gestire i respiratori in caso di crisi. Tra le altre cose, tali linee guida consentono agli ospedali di togliere i respiratori a coloro i quali li utilizzano su base continuativa a domicilio o nelle strutture di lungodegenza, se questi ultimi cercano cure ospedaliere. Non è soltanto un precedente preoccupante, ma interferisce anche con la necessaria fiducia nel sistema medico, di cui abbiamo bisogno per combattere il virus: chi ha bisogno per vivere di respiratori potrebbe avere validi motivi per evitare, in caso di infezione, di rivolgersi agli ospedali, sulla base di un timore fondato di essere sacrificato “per il bene superiore”.

Ho parlato con una mia collega, Alice Wong del Disability Visibility Project, in merito a questi temi. Temi che la riguardano molto da vicino, trattandosi di una quarantaseienne che usa regolarmente un respiratore.

“Il respiratore è parte del mio corpo – non posso rimanere senza di esso per più di un’ora al massimo, a causa della mia disabilità neuromuscolare. Un medico che mi togliesse il respiratore, farebbe violenza alla mia persona e mi porterebbe alla morte “, scrive Alice. “Merito gli stessi trattamenti di qualsiasi paziente. In quanto disabile, ho lottato per esistere con le unghie e coi denti da quando sono nata. “Non chiederò scusa per ciò di cui ho bisogno”.

Ed ha ragione. Consentire la discriminazione nei confronti dei disabili, anche quando le risorse scarseggiano, è semplicemente sbagliato. Le persone impegnate nell’attivismo disabile si stanno mobilitando per difendere questa posizione – Giovedì, l’American Association of People with Disabilities ha inviato una lettera al Congresso esortando “il divieto, sancito legalmente, di razionare le risorse mediche più scarse sulla base di previsioni e considerazioni sull’utilizzo di dette risorse”.

Sebbene alcuni la pensino diversamente, dobbiamo mantenere un approccio ad ampio respiro, ovvero quello del “primo arrivato, primo assistito” quando si tratta di cure salvavita, anche nel caso di risorse mediche scarse come i respiratori. Non dovremmo certamente portare via i respiratori a coloro che li stanno già utilizzando in nome di un utilizzo “efficiente”delle risorse.

E’ un sacrificio, ma non così grande come alcune persone potrebbero immaginare. Il mantenimento del principio di non discriminazione non richiede agli ospedali di curare coloro che morirebbero comunque. Anche in situazioni non catastrofiche, i medici possono sospendere quelle cure considerate inutili e inefficaci dal punto di vista medico. Ma tra chi può essere aiutato, chi presenta disabilità preesistenti non dovrebbe avere una priorità più bassa, anche quando si tratta di risorse mediche scarse.

Sono consapevole che questo approccio ha un prezzo. Mantenendo il principio del “primo arrivato, primo assistito” quando si parla di cure salvavita, possiamo salvare meno vite rispetto all’ottimizzazione spietatamente efficiente. Se qualcuno ha bisogno di restare il doppio del tempo attaccato a un respiratore, sostenere che non dovremmo spegnerlo – o privare quella persona del respiratore che già sta utilizzando – significa che potenzialmente stiamo mettendo a repentaglio la vita di due persone che entrano in terapia intensiva dopo di lei.

Ma anche nel corso di una crisi, non possiamo attribuire il giusto peso al restare fedeli ai nostri principi? Credo di sì, anche se questo può costare delle vite. Questa posizione non è ortodossa, e potrebbe scatenarmi contro l’ira degli stimati bioeticisti che hanno elaborato i protocolli di razionamento che stanno per essere messi in atto.

Ma combatto, perché credo che la non discriminazione non sia solo uno strumento per raggiungere un fine, ma anche un fine in sé e per sé. Le autorità federali, come l’Health and Human Services Office of Civil Rights, devono difendere l’uguaglianza degli americani disabili, anche in questa occasione.

In sostanza, questi dibattiti riguardano il valore: il valore che attribuiamo alla vita dei disabili e il valore che attribuiamo alla non discriminazione della disabilità. Quando il Congresso ha approvato l’American With Disabilities Act 30 anni fa, lo ha fatto come forma di beneficenza limitata ai periodi di abbondanza? O il nostro Paese era sincero quando affermava che la disabilità è una questione di diritti civili? La carità può finire quando le risorse sono scarse, ma i diritti civili devono continuare, anche se ciò comporta un costo in termini di tempo, denaro e persino vite. Le persone con disabilità hanno pari diritto alle scarse risorse della società, anche in tempi di crisi.

Ari Ne’eman è Visiting Professor presso il Lurie Institute for Disability Policy dell’Università di Brandeis e studente di dottorato in politica sanitaria presso l’Università di Harvard.  Attualmente sta lavorando ad un libro sulla storia dell’attivismo disabile in America.

Mammina Cara

Mammina Cara

sono femminista perché tu non lo sei mai stata.

Perché attraverso di te ho conosciuto la norma eteropatriarcale in tutta la sua forza, e questo ha distrutto per sempre il nostro rapporto.

Oggi lo so, sei stata vittima anche tu: hai passato la vita a cercare di essere perfetta con tutta te stessa, e impersonare l’eterno femminino costa caro. Ma quel prezzo l’ho pagato anche io, perché il giorno in cui sono nata, dal momento che non eri riuscita ad essere davvero perfetta – nemmeno quella mattina, quando tua suocera ti ha chiesto, per prima cosa, “a quando un maschio?”  – hai pensato che forse saresti riuscita a realizzare quel sogno in me, e mi hai quasi ammazzata.

Eri una bimbetta paffuta, e questo deve esserti rimasto dentro, perché anche se poi sei stata magra tutta la vita, non hai mai smesso di vederti grassa. A 18 anni appena compiuti ti sei rifatta il naso. Eri quella meglio vestita delle tue amiche, quella che andava dal parrucchiere ogni sabato, con le unghie curate. A ginnastica due volte a settimana, perché bisogna tenersi in forma. Eri bella, e quanto ti è costato!

Dovevi anche essere l’angelo del focolare, nonostante tutti gli anni passati a studiare per  seguire le tue passioni; e quando mio padre si è trovato in difficoltà economiche, hai dovuto mantenerci tutti e tre per lungo tempo, perdendo quasi la salute e molta felicità – facendo attenzione a non scalfire l’immagine un tempo potente, ora incrinata e vacillante, di un uomo travolto dal fallimento lavorativo ed esistenziale (che in ogni caso, anche quando non aveva nulla di fare, non alzava un dito per aiutarti… il lavoro di cura giammai).

Sono femminista perché mi hai messo a dieta a 8 anni (la prima volta), e a 15, dopo aver provato insieme tutti i regimi più restrittivi al mondo (la dieta del fantino, quella del minestrone, la dieta dissociata, ecc.ecc.ecc.) mi hai dato le prime pillole, e quanto siamo dimagrite (anche se eravamo un pò nervose, bisogna ammetterlo!) … Non ho mai capito perché alla fine della dieta quelle pillole, bianche e blu e bianche e rosse, le abbiamo dovute scalare man mano; o forse sì, ma l’ho capito più tardi.

Sono femminista perché mi hai cresciuta per essere perfetta, come te. Ma io vedevo che non eri perfetta e non eri felice, vedevo la fatica quotidiana e la frustrazione, ma c’era una cosa che non capivo allora, ovvero perché tutta quella fatica fosse necessaria, a chi giovasse in realtà. Perché la tua felicità durava un soffio, l’attenzione ricevuta ad una cena in compagnia quando qualcuno – spesso un uomo ma anche molte donne – ti faceva i complimenti per il tuo aspetto.

Eppure nessuno vedeva quello che vedevo io. Nessuno ti vedeva alzarti alle 5,30 ogni mattina per preparare i pasti – visto che toccava a te farlo – poi passare mezz’ora a truccarti e pettinarti, poi vestirti e correre a lavoro; tornare a casa e mangiare (poco, per carità), ricominciare a lavorare fino a tarda sera, pulire tutta la casa e stramazzare a letto. E alzarti per struccarti solo dopo che mio padre era già andato a dormire. E il giorno dopo uguale. Per tutta la vita.

Sono femminista perché a 15 anni mi hai scoperta a leggere Porci con le Ali, che avevo scovato nella libreria erotica di mio padre (lui aveva una libreria erotica, peraltro ereditata da tuo padre, tu avevi solo gialli e libri di cucina) e mi hai sgridato indignata: io ribollivo di rabbia e non capivo che cavolo avessi fatto di male, se li leggeva mio padre perché io no?

Sono femminista perché lui diceva sempre (anche a me, con orgoglio) che tu non prendevi mai l’iniziativa a letto, ma non gli avevi mai detto di no, anche quando gli veniva voglia in mezzo alla notte, mentre tu esausta dormivi (questa cosa mi ha sempre turbata, anche se non te l’ho mai detto. Mi pareva, più che darsi piacere reciproco, una condanna ineluttabile).

Sono femminista perché tuo padre ti disse un giorno di scegliere, la carriera e la solitudine o la famiglia e un lavoro meno appassionante… e tu hai scelto la famiglia, ma poi eri infelice e hai passato la vita a cercare di recuperare la tua professione e lamentarti, ogni tre per due, che avevi rinunciato ai tuoi sogni e nessuno te ne dava merito.

Sono femminista perché per tutto il tempo che ho vissuto con te, tu sei stata per me la kapo del patriarcato: hai cercato in tutti i modi di piegarmi al suo volere, che era diventato il tuo, o forse la tua paura era tale da diventare aggressività, e bisogno di rivalsa verso una figlia che allora non sapeva difendersi.

Per anni non sono stata in contatto con me stessa e con i miei desideri, ero soltanto la tua bambola da perfezionare; le mie inclinazioni non contavano nulla, dovevo semplicemente diventare la versione deluxe di quello che eri stata tu. Dovevo essere magra, bella, curata – però dovevo studiare e farmi la carriera che avevi abbandonato – dovevo occuparmi dei lavori domestici, ma allo stesso tempo eccellere nei voti, dovevo essere quello che voleva il grande padre padrone, ma in fondo anche realizzare i tuoi sogni spezzati. Ovviamente, sentivo di essere esattamente tutto quello che tu non eri. I tuoi sogni non erano i miei, ma per un lunghissimo periodo della mia vita ho provato a realizzarli, per renderti felice. Ma non bastava mai, e anche io non ero mai brava abbastanza. Nemmeno quando ti portavo i fiori al posto di mio padre, che non si ricordava mai gli anniversari. O quando cercavo di esserti alleata, sopportando il tuo dolore di fronte al suo ennesimo tradimento, invitandoti a lasciarlo, per sentirmi dire che non era possibile, che non potevi restare sola alla tua età.

Ho sopportato tutto questo con grande dolore, solo per essere amata da te. Poi un giorno di 17 anni fa, per te ho abortito, ed allora ho detto basta. Non perché volessi diventare madre, non l’ho mai voluto né allora né oggi, ma perché in quelle settimane terribili da quando mi confidai con te (era marzo, proprio come oggi) non mi hai chiesto nemmeno una volta, una volta sola, cosa volessi io realmente. Perché io non esistevo!

Ti ho cancellata dalla mia vita, una volta per tutte. Tu non mi hai mai chiesto scusa. Del resto, ragazza madre mai, prima mi sarei dovuta sposare per diventare una donna rispettabile. Del resto, se volevo potevo averne altri. Del resto, lo avevi fatto per me, anche se nemmeno una volta mi avevi chiesto, né allora, né prima di allora… ma tu, chi sei? Tu cosa vuoi? Per salvarmi ho dovuto buttarti fuori a calci dalla mia vita, perché tu dicevi di amarmi, ma in realtà abusavi di me. E poi la Domenica, andavi in chiesa a pregare.

Il femminismo mi ha liberata, il femminismo mi ha salvata. Anche se i femminismi non sono perfetti – e ancor meno lo sono le femministe – mi hanno dato una voce. Mi hanno dato un esempio. Mi hanno dato sostegno. Mi hanno permesso di scoprire chi sono, anche se ancora oggi fatico a esserlo. Anche se ancora vivo di sensi di colpa, come te.

Negli ultimi due anni, nel mezzo di un cancro devastante, sei rimasta quella di sempre. Ti ha sconvolto di più perdere i capelli degli effetti atroci della chemio. Con grande fatica ho deciso di aiutarti, e sembravi quasi contenta che la malattia mi avesse riavvicinata a te.

Anche durante i ricoveri ospedalieri si verificava il solito copione: tutti erano stupiti della tua età, del tuo aspetto. Ad ogni ricovero inaspettato, la prima cosa che mi chiedevi erano i tuoi trucchi e quando, dopo l’embolia polmonare, ti abbiamo dovuto portare a casa in ambulanza i portantini, entrati nella stanza con la barella, hanno chiesto (guardandosi intorno smarriti): “ma la paziente dov’è?” Perché tu eri lì seduta di fianco al letto, vestita e truccata di tutto punto che li aspettavi.

Sono passati 4 mesi da quando te ne sei andata. Ti sogno spesso, fatico a prendere in mano le tue cose. Evito la tua casa il più possibile, perché lì sei dappertutto e io mi sento soffocare, come tanti anni fa. Nelle foto. Negli oggetti che portano il tuo odore. I libri di cucina. I libri di inglese. Armadi stracolmi di vestiti, cassetti pieni zeppi di trucchi. Una statua di legno con il tuo bel corpo di profilo, che mio padre aveva fatto per te quando eri giovane. La tua bellezza è stata celebrata in ogni modo. Tu hai creduto a quella storia, e hai odiato invecchiare, ti sei impegnata fino all’ultimo a lottare contro quel destino ineluttabile.

Butto via man mano le tue cose. Alcune non riesco: ritagli di giornale di 50 anni fa, quando eri una giovane appena laureata e promettente. Le foto dei tuoi viaggi, in cui appari felice di essere sempre la ragazza più bella. Mi sento travolta dai tuoi rimpianti.

Le cartelle cliniche. La maggior parte degli ultimi due anni, perché prima sei stata sempre bene. Ma qualcosa di vecchio salta fuori, e sono le cartelle dei dietologi. Uno in particolare annota: “Peso ideale 48 chili. nell’ultimo periodo aumentato a 52 chili. Riferisce senso di colpa ai pasti”. Per 4 maledetti chili, per passare dalla taglia 38 alla 40, ti sentivi in colpa. Ricordo quando uscivi a cena: quasi sempre, tornata a casa, vomitavi. Io mi arrabbiavo, tu dicevi che il cibo del ristorante era pesante e che non riuscivi a digerirlo. Erano balle, lo sapevamo entrambe. Sei morta, ironia della sorte, senza più riuscire a mangiare nulla – passando gli ultimi due anni sopraffatta dalla nausea, a raccontarmi, quotidianamente, cosa desiderassi tanto mangiare.

Due settimane prima di morire sei andata dal parrucchiere e a farti le unghie, e 5 giorni prima, ormai agonizzante, mi hai chiesto di farti la doccia, di usare shampoo e balsamo, di metterti il pigiama pulito. Eri uno scheletro spaventato, ti ho appoggiato su uno sgabello, contavo non solo le tue ossa, ma i muscoli e le vene. Dopo la doccia ti ho rimesso a letto, e non ti sei alzata più.

Nel giro di qualche giorno sei morta. Soffocavi di un vomito nero, ma il tuo ombretto non aveva una sbavatura.

 

 

C’è un problema nel tuo piatto

Articolo originale qui. Ringrazio Lafra e Grazia per la revisione.

 

FEMMINISMI | Cosa mangiamo? Come mangiamo? Quanto del cibo che consideriamo “naturale” implica crudeltà? L’antispecismo – che non considera gli animali esseri inferiori, ma soltanto “non umani” – interpella i femminismi da un punto di vista etico, e apre un dibattito di cui si sente parlare sempre più frequentemente.

“Smisi di mangiare carne in carcere non come gesto politico, ma perché quella che ci davano era andata a male; tuttavia credo che la politica alimentare sia una questione importante”, è quanto ha affermato Angela Davis in Spagna appena sette mesi fa, nel corso dell’incontro Mujeres contra la Impunidad. “La questione del cibo è la prossima questione su cui il femminismo deve lavorare”. Nello stesso periodo, in Argentina, il diritto all’aborto veniva negato dall’avanzata dell’ala ultraconservatrice del Senato, e un altro disegno di legge che consentiva l’accesso alla dieta vegana senza interventi da parte delle istituzioni, veniva rigettato dalla Camera dei Deputati, in una convergenza di opposizioni alle rivendicazioni femministe e ad  altre forme di sussistenza sane e antispeciste. Solo dieci giorni fa, attivistu per i diritti degli animali si sono nuovamente mobilitatu contro il Congresso per chiedere l’approvazione di progetti di legge che li riconoscano come esseri senzienti e soggetti di diritto.
“Madri schiave. Partoriscono senza sosta. Numeri.Cose. Latte. Capre bianche. Mare di animali. Formaggi che vengono portati alla bocca. Ignoranza. Cecità. Come se fossero nostre. Capre bianche. Madri. Prigioniere”. Sulle pagine di Voicot, una delle organizzazioni che hanno partecipato alla giornata di protesta del 29 aprile, il testo accompagna l’immagine di centinaia di capre schiacciate l’una sull’altra, in un quadro di estinzione. La consapevolezza delle condizioni della produzione alimentare come futuro spazio di lotta di cui parla Davis è una sfida centrale per le organizzazioni femministe, antispeciste e anticoloniali. La prospettiva è rivoluzionaria, perché sfida tutti i modi di produzione industriali capitalistici, ma anche perché interpella le relazioni affettive e di cura di se che i femminismi stessi propongono, nei confronti di esseri non umani.
“La rivoluzione femminista sarà antispecista o non sarà”, uno degli slogan più importanti del World Veganism Day del 1 ° novembre, è allo stesso tempo monito e promessa di un altro mondo possibile. “Sono i loro figli, non i nostri. Sono le loro uova, non le nostre. Non è cibo, è violenza.” Allo stesso modo, la filosofa catalana e attivista femminista vegana Catia Faria, sottolinea che “il sessismo e lo specismo sono forme di discriminazione ugualmente ingiustificabili, ed entrambe si manifestano con simili schemi oppressivi di gerarchia e dominio”. Da Barcellona, Audrey Garcia (che fa parte di Feministas por la Liberación Animal) sottolinea l’urgenza di affermare che le donne, i corpi femminilizzati e gli animali non sono oggetti di consumo patriarcale. “Non possiamo concepire una lotta sociale che mira a distruggere la discriminazione discriminando altre esistenze. E’ impossibile. Come femministe dobbiamo essere antispeciste. “
Nel mentre Liliana Felipe – a Buenos Aires per partecipare alla discussione “Femminismi, Antispecismo e Diritti Umani” insieme a Violeta Alegre e Malena Blanco nello spazio MU – denuncia un capitalismo basato sullo sfruttamento degli animali. “Di questi tempi compongo canzoni per celebrare e ringraziare gli animali non umani che ci hanno sostenuto in tutti questi millenni sulla terra. Penso che sia ora di lasciarli andare, liberi e felici, e di ripensare al nostro modo di vivere. Gli umani sono come la gonorrea per il pianeta… una vecchia e scomoda malattia.

 

La genealogia in cui si inserisce Felipe passa dall’ecofemminismo di Françoise d’Eaubonne degli anni settanta, alla politica sessuale della carne di Carol Adams degli anni Novanta, all’interconnessione di femminismo e antispecismo, in un parallelismo tra animali usati per il cibo e donne usate come oggetti sessuali. Dalla “cerda punk”, Saggi di una femminista grassa, lesbica, anticapitalista e antispecista, di constanzx alvarez castile, (in minuscolo per richiesta esplicita) che afferma che “in quanto donne grasse siamo abituate ad essere paragonate agli animali, come se quella dell’animale fosse una categoria negativa”, alla lotta di Annie Sprinkle per un’ecosessualità in cui convivono drag queen, sex worker e artiste. Una spirale all’infinito. Antispecismo o patriarcato, corpi o mercificazione, neoliberismo o sovranità alimentare e “donne, trans, lelle, vacche, cagne, fattrici e qualsiasi essere senziente”, come spesso afferma Nina Martí, dell’organizzazione femminista antispecista Unión Vegana Argentina (UVA). Altolà. L’attrice Bimbo Godoy, vegana, aggiunge altre suggestioni al contesto, con i fili invisibili che – dice – dovrebbero bordare tutte le vite.
“Non si tratta solo di parlare di veganismo, ma di un’empatia etica che unu espande nel tentativo di sottrarsi alla complicità di chi fa parte, senza aver potuto scegliere, di questo sistema capitalista, eteropatriarcale e specista, che implica violenza e crudeltà. Come il machismo e il patriarcato, è una struttura solidamente radicata nella cultura e nei costumi. “
Significa mettere a nudo l’oppressione.

 

– Concepirla come una sola, che si manifesta in modi diversi. Di fronte allo stesso “gene” che considera inferiore le femminilità, che considerava inferiori le/i neri e le altre specie non umane o senza diritti, la nostra umanità ci dà la possibilità di scegliere. Il femminismo ci connette con un livello di empatia e di riconoscimento dei privilegi e delle responsabilità che abbiamo a seconda delle nostre appartenenze. Ci permette di scalfire la superficie di tutto ciò che conosciamo e accettiamo, e da lì arrivare anche al veganismo. Di considerare l’urgenza di questa e di altre questioni. Non si può far nulla senza un luogo in cui farlo, e questo luogo è la terra, che è completamente devastata dai nostri consumi.
Il veganismo segue princìpi femministi?
–        Più che “princìpi” – parola che indica idee moralistiche su come essere una brava femminista – il veganismo e l’etica animale non hanno a che fare con la bontà o l’essere migliore di altre femministe, ma con il mettersi all’opera di fronte a questioni urgenti. È uno stile di vita che ti costringe a porre in discussione tutto, compreso ciò che mangiamo, una volta che hai compreso che tutto è politico e che siamo costruttrici e costruttori di realtà. La furia creativa è molto diversa dalla violenza che distrugge, che è la stessa che ci uccide, ci precarizza e ci violenta in mille modi. La stessa che considera gli animali cibo. Quindi, quando diciamo “basta alla violenza”, dobbiamo guardare nel nostro piatto, perché solitamente è un luogo pieno di violenza.

Critica al femminismo universitario

Originale qui grazie a DjVorrej Yudora e Rachele Borghi per averlo condiviso.

Il Montreal Sisterhood è un collettivo di donne provenienti da contesti diversi, con percorsi ed esperienze molto diverse. Il nostro obiettivo è quello di politicizzare le donne nelle scene controculturali che attraversiamo, garantendo al tempo stesso una presenza femminista nell’ambiente antifascista e controculturale. Siamo femministe radicali, ma le nostre riflessioni politiche non sono tutte allo stesso livello e non siamo tutte d’accordo sui diversi argomenti. Tuttavia, abbiamo una cosa in comune: vogliamo attaccare le dimostrazioni concrete di sessismo nella nostra vita quotidiana, utilizzando differenti mezzi. Di fronte a realtà diverse, crediamo che la diversità sia la forza del nostro gruppo.

Quando abbiamo creato il collettivo cinque anni fa, ci siamo rapidamente rese conto che altri gruppi femministi stavano evolvendosi all’interno del mondo accademico. Anche se non proveniamo da quell’ambiente, abbiamo dedicato nottate intere al networking per connetterci l’una con l’altra. Ma abbiamo notato da subito che esisteva un divario evidente tra noi e le altre. Abbiamo modi diversi di combattere, esprimerci, pensare e persino fare attivismo. Le nostre strategie di lotta dovrebbero essere ispirate le une alle altre e complementari, non il contrario.

Questa riflessione è iniziata quando alcune del  gruppo, che sono anche studenti, hanno ammesso di non ritrovarsi nel femminismo accademico. In effetti, quest’ultimo non è molto accessibile, e trarrebbe beneficio dal restare maggiormente ancorato alla realtà piuttosto che alla teoria.

Per noi, essere femministe non significa necessariamente conoscere autor* o teorie, né laurearci in studi femministi, ma piuttosto riconoscere semplicemente l’oppressione patriarcale e il desiderio comune di abbatterla. Ormai da anni percepiamo l’esistenza di una lotta di potere tra le femministe che hanno profonde conoscenze teoriche e si organizzano intorno al mondo accademico da un lato, e tutte le altre. A volte ci sentiamo addosso una certa pressione: ci si aspetta che le femministe dominino concetti che non sono accessibili a tutte, che non commettano errori, e che corrispondano a uno specifico modello di femminismo. In caso contrario l’intero movimento femminista potrebbe darti addosso!

Volano critiche da ogni parte, la competizione è forte. Per avere alleate, alcune hanno l’impressione di dover diventare ciò che non sono, di dover sapere tutto per essere in grado di partecipare alle discussioni senza vergognarsi delle proprie opinioni o delle proprie idee. I rapporti di potere sono così radicati che alcune femministe non si sentono a proprio agio in determinati luoghi, attività, ecc.

D’altra parte, avere conoscenze teoriche e studiare all’università è di per sé una forma di privilegio. Le femministe accademiche dimenticano spesso che in questo senso sono privilegiate e che il loro linguaggio e le teorie che producono sono il risultato del loro posto nella società, e delle relazioni di classe che in essa sussistono. Le discussioni e l’attivismo che sostengono non sono accessibili a tutte, e le loro letture e i loro scritti sono riservati a persone della loro classe. Da questa prospettiva, riproducono una forma di elitismo all’interno delle cerchie femministe. Crediamo che sia importante diffondere la conoscenza e non stiamo mettendo in discussione la condivisione dei saperi, ma piuttosto i modi in cui questa si può realizzare. Questo elitismo di cui parliamo si riferisce all’intellettualizzazione di concetti ed esperienze.

La comunità universitaria è speciale. Donne prevalentemente bianche, economicamente benestanti, eterosessuali, lavorano su argomenti che riguardano donne immigrate, emarginate, in situazioni precarie e così via. Troppe poche vivono la realtà e le condizioni materiali dell’intersezione di oppressioni dei propri “oggetti di studio”. È facile dall’alto di questa posizione avvantaggiata, persino privilegiata, criticare le modalità delle altre. Oltre ad avere relazioni di potere forgiate dalle conoscenze, molte docenti hanno rapporti privilegiati con le/gli studenti e raramente riconoscono quel rapporto di potere, anche quando viene apertamente denunciato.

È importante riconoscere la differenza, è importante essere solidali. Anche se partiamo da  presupposti comuni, i nostri mezzi non sono gli stessi ed è importante rispettare questo aspetto. Dobbiamo eliminare i rapporti competitivi e smetterla di cercare difetti nelle compagne femministe che non appaiono “coese”. Ci siamo rese conto che per noi la cosa più importante non è poter enunciare perfettamente una teoria infallibile, ma essere in grado di applicare, nella nostra vita quotidiana, le azioni concrete che scaturiscono dalle teorie. Rimaniamo unite, abbracciamo la differenza, perché solo insieme potremo realizzare un vero equilibrio di potere.

Testo del Montreal Sisterhood dalla fanzine Casse Sociale (maggio 2015, edita da RASH-Montreal).