Riflessioni sullo Xenofemminismo

Traduzione di questo articolo di feminoska, revisione di Jinny Dalloway.

“Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.” – MANIFESTO FUTURISTA

“L’immaginario cyborg può indicare una via d’uscita dal labirinto del dualismo con il quale abbiamo spiegato a noi stessi i nostri strumenti … Significa costruire e distruggere al stesso tempo macchine, identità, categorie, relazioni, storie spaziali. Preferisco essere cyborg che dea.”– Donna Haraway

“Fondamentalmente mi considero un cyborg.” – Grimes (Claire Boucher)

Un nuovo manifesto femminista ha fatto la sua comparsa recentemente su Twitter (è stato rilasciato nel mese di giugno N.d.T.). Il titolo di questo nuovo manifesto è: “Xenofemminismo: una politica per l’alienazione.” Non si può fare a meno di notare, fin dall’incipit del manifesto, che il suo nome allude a un certo tipo di femminismo per l’Altro (alieno). Questo Altro in qualità di soggetto che contiene in sé una molteplicità di identità. Il nome allude contemporaneamente all’idea di desideri altri, nuove forme di desiderio, e tecno-alienazione. In altre parole, la sperimentazione dell’alterità. Si potrebbe anche affermare che lo Xenofemminismo sia il femminismo di ciò che è alieno, fluido, non-umano. Una cosa posso dire con certezza sullo Xenofemminismo. È un femminismo della rete.

In effetti, se lo Xenofemminismo ha una qualche valenza, è sicuramente quella di riconoscere la violenza insita nell’ambito della tecnologia, il buono, il brutto, il liberatorio e l’opprimente. Riconosce che questa violenza è qualcosa che può essere incanalata. La violenza della macchina. E’ il riconoscimento dell’alienazione come forza creativa. Pur riconoscendo come vera la liberazione che proveniente sgorga dall’alienazione, lo Xenofemminismo non cade nella trappola di una libertà essenzialista [1] (es: “la libertà è qualcosa che il soggetto “umano” persegue in maniera innata”, ecc.), ma sfugge efficacemente ai vincoli di una concezione totalizzante laica e universalista della libertà.Continua a leggere…

La camera cyborg

Originale qui, tradotto da feminoska.

Citando Virginia Woolf, “Una camera tutta per sé”* è il luogo dove una donna può realizzare la propria identità, ovvero uno spazio privato, intimo, fatto apposta per rappresentarsi e inventarsi. Una stanza vietata alla violenza di genere del mondo.

Se diamo ascolto a Roland Barthes, la camera lucida è un altro dispositivo che consente di dipingere il mondo nella maniera più fedele possibile al “reale”, al “naturale”, termini da intendersi qui come “ciò che è tangibile”. In “La Camera Chiara”, opera eponima pubblicata nel 1980, Barthes mette in relazione la modalità rinascimentale di rappresentazione del mondo con l’avvento della fotografia: entrambe catturano la luce per rappresentare le cose, funzionano tramite una camera, e rappresentano la risposta al desiderio di riprodurre il mondo in una copia perfetta. Infatti, con la sua rappresentazione tanto realistica delle cose, la fotografia è stata la causa di una vera e propria crisi della pittura: da allora, il suo ruolo non poté più essere quello di fedele riproduzione del mondo.

Donna Haraway, invece, non parla di camere. Di tutta la complessità del suo essere cyborg, ciò che qui interessa è l’idea della sfocatura dei confini, in particolare tra il reale e l’irreale, e la mescolanza di umano e tecnologico al fine di creare una nuova identità. Mettendo insieme questi diversi concetti, otteniamo una definizione cyborg di alcune identità e pratiche al di fuori delle norme di genere.Continua a leggere…