Moltitudini queer – Note per una politica degli anormali di Preciado

Traduzione di Dalila Ingrande dell’articolo Multitudes queer, notes pour une politique des “anormaux”, da http://multitudes.samizdat.net pubblicata originariamente qui.

Moltitudini queer: note per una politica degli “anormali”

 Questo articolo tratta della formazione dei movimenti e delle teorie queer, della loro relazione con i femminismi e dell’utilizzo politico di Foucault e Deleuze. Esplora inoltre i vantaggi epistemologici e politici, per la teoria  e il movimento queer, dell’uso della nozione di “moltitudine” in relazione a quella di “differenza sessuale”. Differentemente da ciò che accade negli Stati Uniti, in Europa i movimenti queer si ispirano alle culture anarchiche e alle emergenti culture transgender per combattere l’”Impero Sessuale”, proponendo, come è noto, una deontologizzazione delle politiche delle identità. Non c’è più una base naturale (“donna”, “gay”, etc.) che possa legittimare l’azione politica. Quello che importa non è la “differenza sessuale” o la “differenza degli/delle omosessuali”, ma  le moltitudini queer. Una moltitudine di corpi: corpi transgender, uomini senza peni, gounis garous, ciborg, donne butch, uomini lesbici, eccetera. La “moltitudine sessuale” appare, così, come il soggetto possibile della politica queer.

In memoria di Monique Wittig

“Siamo entrati in un’epoca in cui le minoranze del mondo cominciano ad organizzarsi contro i poteri che le dominano e contro tutte le ortodossie” (Guattari, 1973)

La sessopolitica è una delle forme dominanti dell’azione biopolitica nel capitalismo contemporaneo. Tramite questa, il sesso (gli organi chiamati “sessuali”, le pratiche sessuali e anche i codici di mascolinità e femminilità, le identità sessuali normali e devianti) entra nel calcolo del potere, facendo sì che i discorsi sul sesso e sulle tecnologie di normalizzazione delle identità sessuali diventino agenti di controllo della vita.

Nel distinguere le “società sovrane” dalle “società disciplinari”, Foucault ci ha invitati a riflettere sul passaggio, avvenuto in epoca moderna, da una forma di potere che decide e ritualizza la morte, a una nuova forma di potere che calcola tecnicamente la vita, in termini di popolazione, salute, o di interesse nazionale. Questo è, in altri termini, il momento in cui appare una nuova partizione, eterosessuale/omosessuale.

Lavorando su una prospettiva che già veniva esplorata da Audre Lorde[1], da Ti-Grace Atkinson[2] e dal manifesto The Woman-Identified Woman[3] delle “Radicalesbians”, Wittig arrivò a descrivere l’eterosessualità non come una pratica sessuale, ma come un regime politico[4] che fa parte dell’amministrazione dei corpi e della gestione calcolata della vita nell’ambito della biopolitica[5]. Una lettura incrociata di Foucault, avrebbe permesso, fin dall’inizio degli anni 80, di dare una definizione di eterosessualità come tecnologia biopolitica destinata a produrre corpi straight.

  L’impero sessuale

La nozione di sessopolitica prende Foucault come punto di partenza, contestando, tuttavia la sua concezione di politica, secondo la quale il biopotere non faccia altro che produrre le discipline di normalizzazione e determinare le forme di soggettivazione.

Nell’ispirarci alle analisi di Maurizio Lazzarato[6], che distingue il biopotere dalla potenza della vita, possiamo comprendere i corpi e le identità degli anormali come potenze politiche, e non semplicemente come effetti dei discorsi sul sesso. Ciò significa che alla storia della sessualità iniziata da Foucault dobbiamo aggiungere vari capitoli. L’evoluzione della sessualità moderna è direttamente relazionata all’emergenza di quello che potremmo chiamare come nuovo “Impero Sessuale” (per risessualizzare l’impero di Hardt e Negri).

Il sesso (gli organi sessuali, la capacità di riproduzione, i ruoli sessuali per le discipline moderne…) è collegato al capitale. La sessopolitica non può essere ridotta nè alla regolazione delle condizioni di riproduzione della vita, né ai processi biologici che si “riferiscono alla popolazione”.

Il corpo straight è il prodotto d una divisione del lavoro dalla carne, secondo la quale ogni organo è definito attraverso la sua funzione. Una sessualità qualunque implica sempre una territorializzazione precisa della bocca, della vagina, dell’ano. E’ così che il pensiero straight assicura il nesso strutturale tra la produzione dell’identità di genere e la produzione di certi organi come organi sessuali e riproduttori. Capitalismo sessuale e sesso del capitalismo.

Il sesso del vivente si rivela una questione centrale della politica e della governamentalità. Di fatto, l’analisi foucaultiana della sessualità è molto dipendente da una certa idea di disciplina del secolo XIX. La sua conoscenza dei movimenti femministi americani, della subcultura sadomasochista (SM) o del FHAR (Fronte Omossessuale di Azione Rivoluzionaria) in Francia, niente di tutto ciò portò il filosofo a prendere veramente in considerazione la proliferazione delle tecnologie del corpo sessuale nel XX secolo: medicalizzazione e trattamento dei bambini intersessuali, gestione chirurgica della transessualità, ricostruzione e “aumento” della mascolinità e della femminilità normative, regolazione del lavoro sessuale da parte dello Stato, boom dell’industria pornografica…Il suo rifiuto dell’identità e dell’attivismo gay lo portarono a creare una finzione retrospettiva all’ombra della Grecia antica.

Negli anni ’50 abbiamo assistito ad una rottura all’interno del regime disciplinare del sesso. Anteriormente, e in continuità con il XIX secolo, le discipline biopolitiche funzionarono come una macchina per naturalizzare il sesso. Ma questa macchina non era legittimata dalla “coscienza”. Lo diventerà grazie a medici come John Money, che comincia ad utilizzare la nozione di “genere” per rendere conto della possibilità di modificare chirurgicamente e ormonalmente la morfologia sessuale dei bambini intersex e delle persone transessuali. Money è l’Hegel della storia del sesso. Questa nozione di genere ha costituito un primo momento di riflessività (e pertanto una mutazione irreversibile in relazione al XIX secolo).

Con le nuove tecnologie mediche e giuridiche di Money, i bambini intersessuali, operati alla nascita o trattati durante la pubertà, diventano minoranze costruite come “anormali”, a beneficio della regolazione normativa del corpo e della massa straight.

Questa molteplicità di anormali è la potenza che l’Impero Sessuale si sforza di regolare, controllare, normalizzare. Il “post-moneismo” è per il sesso ciò che il post-fordismo è per il capitale. L’impero dei Normali, fin dagli anni ’50, dipende dalla produzione e dalla circolazione a gran velocità di flusso di silicone, flusso di ormone, flusso testuale, flusso delle rappresentazioni, flusso delle tecniche chirurgiche, in definitiva flusso di generi. Certamente, non tutto circola in maniera costante e, soprattutto, i corpi non traggono gli stessi benefici da questa circolazione: è all’interno di questa circolazione differenziale di flussi di sessualizzazione che si gioca la normalizzazione contemporanea del corpo.

Questo ci ricorda opportunamente che il concetto di genere è innanzitutto una nozione sessopolitica, ancora prima di diventare uno strumento teorico del femminismo americano. Non a caso, negli anni ’80, all’interno del dibattito tra femministe “costruttiviste” e femministe “essenzialiste”, la nozione di genere sarebbe divenuta lo strumento teorico fondamentale per concettualizzare la costruzione sociale, la fabbricazione storica e culturale della differenza sociale, di fronte alla rivendicazione della “femminilità” come sostrato naturale, come una forma di verità ontologica.

 Politiche delle moltitudini queer

 Da nozione messa al servizio di una politica della riproduzione della vita sessuale, il genere diventa l’indizio di una moltitudine. Il genere non è l’effetto di un sistema chiuso di potere, né un’idea che rientra all’interno della materia passiva, ma il nome di un insieme di dispositivi sessopolitici (dalla medicina alla rappresentazione pornografica, passando per le istituzioni familiari) che saranno l’oggetto di una riappropriazione da parte delle minoranze sessuali. In Francia, la manifestazione a maggio del 1970, il numero 12 di Tout e quello di Recherches (Trois milliards de pervers), il movimento precedente al Mouvement de Libération des Femmes (MLF), il FHAR e le terroriste delle Gouines Rouges, costituiscono una prima offensiva degli “anormali”.

Il corpo non è un dato passivo sul quale agisce il biopotere, ma in primo luogo la potenza stessa che rende possibile l’incorporazione protesica dei generi. La sessopolitica diventa non solo un luogo di potere, ma soprattutto lo spazio di una creazione nella quale si succedono e si giustappongono movimenti femministi, omosessuali, transessuali, intersessuali, transgender, chicani, postcoloniali, eccetera. Le minoranze sessuali diventano moltitudini. Il mostro sessuale che ha per nome moltitudine diventa queer.

Il corpo della moltitudine appare al centro di quello che ho chiamato, per riprendere un’espressione di Deleuze, un lavoro di “deterritorializzazione” dell’eterosessualità. Una deterritorializzazione che interessa sia lo spazio urbano (bisogna quindi parlare di deterritorializzazione dello spazio maggioritario e non del ghetto) che quello corporale. Questo processo di deterritorializzazione del corpo obbliga a resistere ai processi di normalizzazione.

Il fatto che esistano tecnologie precise di produzione di corpi normali o di normalizzazione dei generi non implica un determinismo, né un’impossibilità di azione politica. Al contrario, poiché porta in se stessa – come fracasso o residuo – la storia delle tecnologie di normalizzazione dei corpi, la moltitudine queer ha anche la possibilità di intervenire sui dispositivi biotecnologici di produzione della soggettività sessuale.

Possiamo pensare alla modalità di evitare due trappole concettuali e politiche, due letture (infelici, ma possibili) di Foucault. Bisogna evitare la segregazione dello spazio politico che farebbe della moltitudine queer un tipo di margine o di deposito della trasgressione. Ma non dobbiamo nemmeno cadere nella trappola della lettura neoliberale o neoconservatrice di Foucault, che ci porterebbe a pensare alle moltitudini queer in opposizione alle strategie identitarie, essendo la moltitudine un’accumulazione di individui sovrani e uguali davanti alla legge, sessualmente irriducibili, proprietari dei propri corpi e rivendicanti il loro diritto inalienabile al piacere.

La prima lettura oggettiva un’appropriazione della potenza politica degli anormali in un’ottica di progresso; la seconda ignora i privilegi della maggioranza e della normalità (etero)sessuale, non riconoscendo che quest’ultima è un’identità dominante. Bisogna ammettere che i corpi non sono mai docili. “De-identificazione” (per riprendere la formula di De Lauretis), identificazioni strategiche, deviazioni dalle tecnologie del corpo e deontologizzazione del soggetto della politica sessuale, sono alcune delle strategie politiche delle moltitudini queer.

La de-identificazione nasce dalle lesbiche che non sono più donne, dai froci che non sono più uomini, dalle trans che non sono né donne né uomini. Da questo punto di vista, se Wittig è stata ripresa dalle moltitudini queer, è precisamente perché la sua dichiarazione secondo la quale “le lesbiche non sono donne” è una risorsa che permette di contrastare, attraverso la de-identificazione, l’esclusione dell’identità lesbica come condizione di possibilità per la formazione del soggetto politico del femminismo moderno.

Identificazioni strategiche. Le identificazioni negative come “lesbiche” o “froci” sono diventate possibili luoghi di produzione di identità resistenti alla normalizzazione, attente al potere totalizzante degli appelli all’”universalizzazione”.

Sotto l’impatto della critica postcoloniale, le teorie queer degli anni 90 hanno contato come enormi risorse politiche nel processo di identificazione “ghetto”; identificazioni che acquisivano un nuovo valore politico, dato che per la prima volta, i soggetti di enunciazione erano gli stessi “froci”, “lesbiche”, neri e persone transgender. A coloro che si agitano sotto la minaccia della ghettizzazione, i movimenti e le teorie queer rispondono per mezzo di strategie al tempo stesso iperidentitarie e postidentitarie. Fanno un’utilizzazione massima delle risorse politiche della produzione performativa delle identità devianti. La forza politica dei movimenti come Act Up, Lesbian Avengers o Radical Fairies viene dalla loro capacità di investire sulle posizioni di soggetti “abietti” (questi “cattivi soggetti” che sono i sieropositivi, le lesbiche, i viados) per fare di questo atto un luogo di resistenza al punto di vista universale, alla storia bianca, coloniale e straight dell’”umano”. Fortunatamente loro non condividono la sfiducia che fu – invece – quella di Foucault, Wittig e Deleuze rispetto all’identità come luogo di azione politica, e così in contrapposizione alle loro differenti maniere di analizzare il potere e l’oppressione.

All’inizio degli anni 70, il Foucault francese prende le distanze da FHAR a causa di quello che egli definì come “tendenza alla ghettizzazione”; il Foucault americano sembrava invece aver apprezzato molto le “nuove forme di corpi e di piaceri” che le politiche dell’identità gay, lesbica e SM hanno permesso di far emergere nel quartiere Castro, il “ghetto” di San Francisco. Dall’altro lato, Deleuze ha criticato ciò che egli chiamò un’identità “omosessuale molare”, perché pensava che sponsorizzasse il ghetto gay, per idealizzare l’”omosessualità molecolare”, la quale gli permetteva di fare delle “buone” figure omosessuali, da Proust al “travestito effeminato”, esempi paradigmatici dei processi del “diventare donna”, che stavano al centro della sua agenda politica. Ciò ha permesso anche che egli scrivesse sull’omosessualità invece di interrogare i suoi propri presupposti eterosessuali[7]. Rispetto a Wittig, ci possiamo chiedere se la sua adesione alla posizione di “scrittrice universale” ha impedito la sua soppressione dalla lista dei classici della letteratura francese dopo la pubblicazione di Corps Lesbien, nel 1973. Senza dubbio no, soprattutto quando vediamo la fretta con cui il giornale Le monde ha reintitolato il suo necrologio con “Monique Wittig, l’apologia del lesbismo”, facendo il cappello col vocabolo “scomparsa”[8].

 Deviazione dalle tecnologie del corpo. I corpi della moltitudine queer sono anche le riappropriazioni e le deviazioni dai discorsi della medicina anatomica e della pornografia, tra gli altri, che hanno costruito il corpo straight e il corpo deviante moderno. La moltitudine queer non ha relazione con un “terzo sesso” o con un “oltre i generi”. Essa si costruisce nell’appropriazione delle discipline di sapere/potere dei sessi, nella rearticolazione e nella deviazione dalle tecnologie sessopolitiche specifiche di produzione di corpi “normali” e “devianti”. In opposizione alle politiche “femministe”, la politica della moltitudine queer non poggia su una identità naturale (uomo/donna) né su una definizione delle pratiche (eterosessuale/omosessuale), ma su una molteplicità di corpi che si sollevano contro il regime che li costruisce come “normali” o “anormali”: sono drag king, gouines garous, donne con la barba, transfrocie senza piselli, le handi-cyborgs.

Quello che è in gioco è come resistere o come deviare dalle forme di soggettivazione sessopolitiche. Tale riappropriazione dei discorsi di produzione di potere/sapere sul sesso è una profonda perturbazione epistemologica. Nella sua introduzione programmatica al famoso numero di Recherches, senza dubbio ispirato dalla FHAR, Guattari descrive questa mutazione nelle forme di resistenza e di azione politica: “L’oggetto di questo dossier – l’omosessualità oggi in Francia – non poteva essere affrontato senza rimettersi alla questione dei metodi ordinari di ricerca delle scienze umane, che sotto il pretesto di oggettività, tentano di stabilire una distanza massima tra l’osservatore e il suo oggetto. […] L’analisi istituzionale, al contrario, implica un decentramento radicale dell’enunciazione scientifica. Non basta tuttavia accontentarsi a “dare la parola” ai soggetti interessati – questo è, a volte, un approccio formale, gesuitico – ancora, bisogna creare le condizioni per un esercizio totale o parossistico di questa enunciazione. Il maggio 68 ci ha insegnato a leggere sui muri, e in seguito abbiamo cominciato a decifrare i graffiti nelle prigioni, negli asili e oggi nei bagni. E’ tutto un nuovo spirito scientifico che sta per essere rielaborato”[9].

La storia dei movimenti politico-sessuali post-moneisti è la storia di questa creazione delle condizioni di un esercizio totale di enunciazione, la storia di un’inversione della forza performativa dei discorsi e di una riappropriazione delle tecnologie sessopolitiche di produzione dei corpi degli “anormali”. La presa di parola da parte delle minoranze queer è un evento non tanto postmoderno quanto postumano: una trasformazione nella produzione e circolazione dei discorsi nelle istituzioni moderne (dalla scuola alla famiglia, passando per il cinema o l’arte) e una mutazione dei corpi.

Deontologizzazione del soggetto della politica sessuale. Negli anni 90, una nuova generazione emanata dagli stessi movimenti identitari, cominciò a ridefinire la lotta e i limiti del soggetto político “femminista” e “omosessuale”. Sul piano teorico, questa rottura inizialmente assunse la forma di una revisione critica sul femminismo, operata dalle lesbiche e dalle postfemministe americane, appoggiandosi a Foucault, Derrida, Deleuze.

Rivendicando un movimento postfemminista o queer, Teresa de Lauretis[10], Donna Haraway[11],  Judith Butler[12], Judith Halberstam[13] (negli Stati Uniti), Marie-Hélène Bourcier[14] (in Francia), ma anche le lesbiche chicane come Gloria Anzaldua[15] o le femministe nere come Barbara Smith[16] e Audre Lorde, attaccheranno la nozione di femminilità che era stata inizialmente la fonte di coesione del soggetto del femminismo. La critica radicale del soggetto unitario del femminismo, coloniale, bianco, di classe medio-alta e desessualizzato, fu messa in moto. Se le moltitudini queer sono postfemministe, non è perchè desiderano o possono agire senza il femminismo. Al contrario, esse sono il risultato di un confronto riflessivo del femminismo con le differenze che il femminismo oscurò a vantaggio di un soggetto politico “donna” egemonico e eterocentrico.

Quanto ai movimenti di liberazione gay e lesbici, una volta che il loro obiettivo è ottenere l’uguaglianza dei diritti, e che per fare ciò si utilizzano delle concezioni fisse di identità sessuale, questi contribuiscono alla normalizzazione e all’integrazione dei gay e delle lesbiche nella cultura eterosessuale dominante, favorendo politiche familiste, come per esempio la rivendicazione del diritto al matrimonio, all’adozione e alla trasmissione del patrimonio.

E’ contro quest’essenzialismo e questa normalizzazione delle identità omosessuali che le minoranze gay, lesbiche, transessuali e transgender hanno reagito. Alcune voci si sollevano per mettere in questione la validità della nozione di identità sessuale come unico fondamento dell’azione politica e per opporre una proliferazione delle differenze (di razza, di colore, di età, di pratiche sessuali non normative, di deficit). La nozione medicalizzata di omosessualità, che risale al XIX secolo e definisce le identità attraverso le pratiche sessuali, è stata abbandonata a favore di una identificazione politica e strategica delle identità queer. L’omosessualità ben ripulita e prodotta dalla sciencia sexualis del XIX secolo è esplosa; è strabordata in una moltitudine di “cattivi soggetti” queer.

La politica delle moltitudini queer emerge da una posizione critica in relazione agli effetti normalizzanti e disciplinari di tutta la formazione identitaria, di una deontologizzazione del soggetto della politica delle identità: non c’è una base naturale (“donna”, “gay”, eccetera) che possa legittimare l’azione politica. Non si vuole la liberazione delle donne dalla “dominazione maschile”, come pretendeva il femminismo classico, visto che non ci si appoggia sulla “differenza sessuale”, sinonimo della principale forma di oppressione (transculturale e transtorica), che avrebbe rivelato una differenza di natura e che avrebbe strutturato l’azione politica.

La nozione di moltitudine queer si oppone decisamente a quella di “differenza sessuale”, cosi come è stata esplorata sia dal femminismo essenzialista (da Irigaray a Cixous, passando per Kristeva) che dalle variazioni strutturaliste e/o lacaniane del discorso della psicanalisi (Roudinesco, Heritier, Thery). Essa si oppone alle politiche paritarie derivate da una nozione biologica di “donna” o di “differenza sessuale”. Si oppone alle politiche repubblicane universaliste che concedono il “riconoscimento” e impongono l’”integrazione delle differenze” all’interno della Repubblica. Non esiste differenza sessuale, ma una moltitudine di differenze, una trasversalità di relazioni di potere, una diversità di potenze di vita. Queste differenze non sono “rappresentative” perché sono “mostruose” e mettono in questione, per questo motivo, i regimi di rappresentazione politica, ma anche i sistemi di produzione dei saperi scientifici dei “normali”. In questo senso, le politiche delle moltitudini queer si oppongono non solamente alle istituzioni politiche tradizionali, che si vogliono sovrane e universalmente rappresentative, ma anche alle epistemologie sessopolitiche straight, che dominano ancora la produzione scientifica.

[1] Audre LORDE, 1984.

[2] Ti-Grace ATKINSON, 1970 e 1974.

[3] RADICALESBIANS, 1971.

[4] Monique WITTIG, 2001.

[5] Michel FOUCAULT, 1976.

[6] Maurizio LAZZARATO, 2002.

[7] Per un’analisi dettagliata dell’utilizzazione di metafore omosessuali, vedere il capitolo intitolato “Deleuze ou l’amour qui n’ose pas dire son nom”, del Manifeste Contrasexuel, 2000.

[8] LE MONDE, 2003.

[9] Félix GUATTARI, 1973, p. 2-3.

[10] Teresa DE LAURETIS, 1987.

[11] Donna HARAWAY, 1991.

[12] Judith BUTLER, 1990.

[13] Judith HALBERSTAM, 1998.

[14] Marie-Hélène BOUCIER, 2001.

[15]Gloria ANZALDUA, 1987.

[16] Gloria HULL, Bell SCOTT e Barbara SMITH, 1982.

Referenze bibliografiche

ANZALDUA, Gloria. Borderlands/La Frontera: The New Mestiza. San Francisco: Spinster; Aunt Lutte, 1987.

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BOUCIER, Marie-Hélène. Queer zones, politiques des identités sexuelles, des représentations et des savoirs. Paris: Balland, 2001.

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GUATTARI, Félix. “Trois millards de pervers”. Recherches, n. 12, p. 2-3, 1973.

HALBERSTAM, Judith. Female Masculinity. Durham: Duke University Press, 1998.

HARAWAY, Donna. Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature. New York: Routledge, 1991.

HULL, Gloria; SCOTT, Bell; SMITH, Barbara. All the Women are White, All the Black are Men, But Some of Us are Brave: Black Women’s Studies. New York: Feminist Press, 1982.

LAZZARATO, Maurizio. Puissances de l’invention: la psychologie économique de Gabriel Tarde contre l’économie politique. Paris: Les Empêcheurs de Penser en Rond, 2002.

LE MONDE. Paris, 11 janvier 2003.

LORDE, Audre. Sister Outsider. California: Crossing Press, 1984.

PRECIADO, Beatriz. “Deleuze ou l’amour qui n’ose pas dire son nom”. In: Manifeste contrasexuel. Paris: Balland, 2000.

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RADICALESBIANS. “The Woman-Identified Woman.” In: KOEDT, Anne (Dir.). Notes from the Third Year. New York, 1971. p. 81-84.

WITTIG, Monique. La pensée straight. Traduction Marie-Hélène Bourcier. Paris: Balland, 2001.

Immagine di Mojo Wang

Il mio corpo trans esiste

Articolo originale di P. Preciado qui.

Mentre il cambiamento – accelerato dalla somministrazione continua di testosterone – si fa sempre più evidente, comincio il processo legale di riassegnazione sessuale che mi condurrà, se il giudice accetta la richiesta, a cambiare il nome sui documenti. I due processi, quello bio-morfologico e quello politico-amministrativo, non sono, in ogni caso, convergenti. Sebbene il giudice consideri i cambiamenti fisici (sostenuti da una indispensabile diagnosi psichiatrica) condizione essenziale di riassegnazione  giuridica sessuale e del cambiamento del nome, tali modifiche non possono essere ridotte in alcun modo alla rappresentazione dominante del corpo maschile secondo l’epistemologia della differenza sessuale. Mentre sono sempre più vicino all’ottenimento del nuovo documento, mi rendo conto con orrore che il mio corpo trans non esiste né esisterà mai di fronte alla legge. Realizzando un atto di idealismo politico-scientifico, medici e giudici negano la realtà del mio corpo trans per poter continuare ad affermare la verità del regime sessuale binario. Esiste la nazione. Esiste il tribunale. Esistono gli archivi. Esistono le mappe. Esistono i documenti. Esiste la famiglia. Esiste la legge. Esistono i libri. Esiste il centro di detenzione. Esiste la psichiatria. Esiste il confine. Esiste la scienza. Esiste persino Dio. Ma il mio corpo trans non esiste.

Il mio corpo trans non esiste nei protocolli amministrativi che garantiscono lo status di cittadinanza. Non esiste come l’incarnazione della sovranità mascolina eiaculante nella rappresentazione pornografica, né come target specifico nelle campagne commerciali del settore tessile, né come referente delle segmentazioni architettoniche della città.

Il mio corpo trans non esiste come variante possibile e vitale dell’umano nei libri di anatomia, né nelle rappresentazioni dell’apparato riproduttivo nei libri di testo di biologia delle scuole. Discorsi e tecniche di rappresentazione affermano solamente l’esistenza del mio corpo trans come esemplare da correggere di una tassonomia della deviazione. Sostengono che esista soltanto come correlato di un’etnografia della perversione. Dicono che i miei organi sessuali non esistono se non in quanto mancanza o protesi. Al di fuori della patologizzazione non vi è alcuna rappresentazione adeguata del mio petto o della mia pelle o della mia voce. Il mio sesso non è una macro-clitoride o un micro-pene. Ma se il mio sesso non esiste, i miei organi sono ancora umani? La crescita della barba non segue le istruzioni di rettifica della mia soggettività nella direzione del maschio: sul viso i peli crescono in luoghi senza alcun significato apparente o smettono di crescere dove la loro presenza indicherebbe la forma “corretta” di una barba. La variazione della distribuzione della massa corporea e muscolare non mi rende immediatamente più virile. Solo più trans: senza che questo nome trovi una traduzione immediata in termini del binarismo maschio-femmina. Il tempo del mio corpo trans è adesso: non è definito da ciò che era prima o da ciò che si suppone dovrà essere.

Il mio corpo trans è un organismo anarchico e ribelle. Un paradosso epistemologico ed amministrativo. Un divenire senza teleologia o referente, la sua esistenza inesistente rappresenta allo stesso tempo la rimozione della differenza sessuale e dell’opposizione tra omosessuale e eterosessuale. Il mio corpo trans si oppone alla lingua di coloro che lo nominano per negarlo. Il mio corpo trans esiste come realtà materiale, come rete di desideri e pratiche, e la sua esistenza inesistente minaccia ogni cosa: la nazione, il tribunale, gli archivi, le mappe, i documenti, la famiglia, il diritto, i libri, il centro di detenzione, la psichiatria, il confine, la scienza, gli dei. Il mio corpo trans esiste.

 

ANIMALISMO! Io sono la mucca pazza! di Paul B. Preciado

Nel corso degli anni novanta Carol Rama, alla ricerca di una figura in cui identificarsi, non ricorre ad immagini di femminilità, ma a quelle dell’animale malato affetto da encefalopatia spongiforme bovina: la “Mucca Pazza”. La Mucca Pazza occupa ossessivamente l’ultimo periodo della sua vita. Gli elementi e i motivi caratteristicamente carolramiani (la gomma, la tela dei sacchi postali, i seni, le lingue, i peni, le protesi …) sono ora riorganizzati in un “teatrino” astratto a formare un’anatomia dislocata non più in grado di costituire un corpo. Tuttavia, Rama finirà per definire autoritratti queste opere non figurative: “Si tratta di straordinari autoritratti, straordinari, non perché sono belli, ma per l’idea di queste tette e cazzi di toro, per il nostro modo di guardare l’anatomia di tutti in parti separate, estreme”. “La Mucca Pazza sono io”, dice, aggiungendo, inaspettatamente “e questo mi ha fatto piacere, godere in modo straordinario.”

La prossimità tra l’umano e l’animale che Carol Rama rende reale nel suo lavoro non è solo metaforica. L’epidemia del morbo della “mucca pazza”, trasmissibile agli esseri umani, ha rivelato i legami bioculturali, rituali, economici e sessuali con l’animale. L’epidemia è apparsa nel Regno Unito nel 1986 come variante bovina della malattia umana di Crutzfeldt-Jakob. È una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale causata da una mutazione che cambia la forma di un gene della proteina: colpisce le cellule neurali che si disintegrano e muoiono. Il cervello viene letteralmente crivellato di buchi, che producono una disconnessione progressiva del sistema nervoso.

Se a livello micro-cellulare l’epidemia è una questione di forma, di estetica cellulare, etologicamente è una questione di riti, di teatralità sociale. L’epidemia ha smascherato il circuito di cannibalismo animale-umano generato dall’industria alimentare e dal “complesso industriale animale” dopo la seconda guerra mondiale. Dopo un’aspra controversia scientifica, venne stabilito che l’origine della malattia derivava dall’inclusione, nell’alimentazione delle vacche, di resti di ovini, caprini e anche carne di manzo. Tra il 1998 e il 2000 apparvero, sulle televisioni di tutto il mondo, le immagini: prima delle mucche traballanti con la bava alla bocca. Poi dei macelli dove si fabbricavano le farine animali. I primi piani della carne trasformata in polvere. Le fotografie al microscopio dei neuroni infetti. Infine, il sacrificio e le cremazioni di massa di animali. Carol Rama non è l’unica mucca pazza: l’umanità è la mucca pazza.Continua a leggere…