Perchè non esiste il “razzismo al contrario”

Una mia traduzione uscita su Intersezioni, il blog sul quale scrivevo qualche anno fa. E’ ancora terribilmente attuale, perciò la ripropongo.

In qualsiasi discussione sul razzismo e il suo supposto “contrario”, è fondamentale prendere le mosse dalle definizioni di pregiudizio e discriminazione, in modo da porre le basi per una comprensione contestualizzata del razzismo. C’è una buona ragione dietro all’esistenza di questi termini, e un’ottima ragione per non confonderli, come dimostrerò più avanti.

Il Pregiudizio è un sentimento irrazionale di avversione per una persona o gruppo di persone, di solito basato su stereotipi. Praticamente chiunque sperimenta una qualche forma di pregiudizio, rivolto ad un gruppo etnico o religioso o una tipologia di persone, come quelle bionde, o grasse o alte. Ciò che conta è che semplicemente quelle persone non le/gli piacciono – per farla breve, il pregiudizio è un sentimento, una convinzione. Puoi avere dei pregiudizi, ma comportarti comunque in modo etico se fai attenzione a non comportarti seguendo le tue idiosincrasie irrazionali.

La Discriminazione ha luogo nel momento in cui una persona mette in atto il proprio pregiudizio. Questa parola descrive quei momenti nei quali una persona decide, per esempio, di non dare il lavoro ad un’altra persona per via della razza o dell’orientamento religioso di quest’ultima. O per il suo aspetto (esiste una forte discriminazione ad esempio, quando si tratta di assumere donne non attraenti fisicamente).  Puoi discriminare, a livello individuale, una persona o un gruppo, se ti trovi in una posizione di potere rispetto alla persona oggetto della discriminazione. Le persone bianche possono discriminare le persone nere, e le persone nere possono discriminare quelle bianche quando, ad esempio, una delle due persone è l’intervistator@  e l’altr@ è l’intervistat@ in un colloquio di lavoro.

La parola Razzismo, tuttavia, descrive modalità di discriminazione istituzionalizzate e rese “normali” all’interno di una intera cultura. E’ basato sulla convinzione ideologica che una “razza” sia in qualche modo migliore di un’altra “razza”. Non è più una singola persona che discrimina a questo punto, ma un’intera popolazione che opera in una struttura sociale che rende davvero molto difficile ad una persona non discriminare.

Un esempio lampante è quello delle culture schiavistiche, nelle quali le persone nascono in società in cui una tipologia di individuo è “naturalmente” padrona, e un’altra tipologia è “naturalmente” schiava (e a volte nemmeno considerata una persona, ma una bestia da soma). In una cultura simile, la discriminazione informa il tessuto sociale, economico e politico, e le/gli individu@ – anche quell@ “liber@” – non hanno realmente scelta rispetto alla possibilità o meno di discriminare, poiché anche se non credono nella schiavitù, interagiscono ogni giorno con le/gli schiav@, e le leggi e consuetudini esistenti che tengono le/gli schiavi in soggezione.

In una società razzista, è necessaria una grande dose di coraggio e volontà di sottoporsi a scandali o persino pericoli per uscire dal Sistema e diventare abolizionist@. Non è “colpa” di ciascun singolo membro della classe dominante se esiste la schiavitù, e alcun@potrebbero persino desiderare che essa scompaia. Ma la realtà è che ogni singolo membro della classe dominante ottiene benefici dal lavoro gratuito degli schiavi a tutti i livelli della società, per il semplice fatto di non poter evitare di consumare prodotti derivanti dalla schiavitù, o di beneficiare dello sfruttamento del lavoro schiavistico. Così, a meno che i membri della classe dominante non reagiscano opponendosi al sistema cercando di rovesciarlo (ad esempio, le/gli abolizionist@ della schiavitù), saranno complici nel Sistema schiavistico: anche le/gli abolizionisti avranno dei vantaggi – contro la propria volontà – dal sistema schiavistico, indossando abiti o utilizzando oggetti prodotti da tale sistema.

Quello summenzionato è un esempio estremo, ma chiaro, che utilizzo per rendere più semplice la comprensione delle situazioni molto più ingarbugliate e complesse nelle quali ci muoviamo oggi. Nonostante il fatto che le/gli schiav@ furono liberat@ dal Proclama di Emancipazione, e che il quattordicesimo emendamento ha dato alle/gli Afroamerican@ il diritto di voto, le strutture istituzionali del razzismo non sono state rovesciate. Anche dopo l’approvazione del quattordicesimo emendamento, le persone bianche avevano ancora il potere di togliere a quelle nere il diritto al voto attraverso l’istituzione della tassa di voto (poll tax), la Clausola del Nonno (Grandfather clause) e la clausola di “comprensione” che richiedeva che le/i ner@ dovessero recitare qualsiasi passo della Costituzione che venisse loro richiesto. Negli anni ’60, vennero votati gli atti di tutela dei diritti civili di voto, che abbatterono questi ostacoli al voto. Ma le/i ner@ americani non hanno ancora potere politico in proporzione alla propria presenza numerica all’interno della popolazione (nonostante un Presidente nero).

Se si prendono in considerazione istituzioni importanti quali Senato e Congresso Federali e Statali, o le corti supreme Federali e Statali, o la lista dei CEO delle società più importanti, o qualsiasi altro ente che detenga un potere reale negli Stati Uniti, pochissimi sono le/i ner@ che ne fanno parte (e in alcuni casi, proprio nessun@).  E delle/dei pochi ner@ che ne fanno parte, la maggior parte non rappresenta il punto di vista della maggioranza delle persone nere del paese, ma quelle della maggioranza bianca. D’altro canto, se si prendono in considerazione le persone nere povere, o in prigione, o disoccupate, o prive del diritto all’assistenza sanitaria, il loro numero in queste categorie è di gran lunga maggiore in proporzione a quello nella società nel suo complesso.

A meno che non si voglia sostenere che le persone nere siano “naturalmente” inferiori alle bianche (il che rappresenta una posizione apertamente razzista), bisogna ammettere che esiste un qualche meccanismo che limita le opportunità a queste persone. Questo meccanismo è ciò che chiamiamo “razzismo” – i sistemi di leggi e regolamenti economici, sociali e politici che nel loro complesso discriminano, apertamente (attraverso per esempio la profilazione razziale) o in maniera subdola (ad esempio quando maggioranze di governo bianche definiscono i distretti di voto, in modo che la maggioranza nera sia divisa e non possa avere il potere elettorale di votare candidat@ ner@; o banche gestite da bianchi che utilizzano i codici di avviamento postali come criterio per escludere richiedenti di mutui o prestiti, e “casualmente” si trovano ad escludere tutta la maggioranza nera di un quartiere cittadino, pratica conosciuta come red-lining). Sarebbe possibile andare avanti per ore enumerando tutti questi svariati meccanismi, e sicuramente potete immaginarne anche voi nella vostra esperienza, funzionali a discriminare ner@, ispanic@, arab@, nativ@ american@, ecc.ecc.

In merito al “razzismo al contrario”.

E’ cruciale conservare la distinzione tra i tre termini enunciati più sopra, perché altrimenti le persone bianche tendono a ridefinire la “discriminazione” come “razzismo”. Il loro argomento principale è che poiché sia le persone bianche che quelle nere possono discriminarsi a vicenda, il “razzismo al contrario” è possibile. Ma la verità sta nel fatto che le persone nere: 1) hanno molte meno occasioni di discriminare le persone bianche rispetto al caso contrario 2) le persone nere non hanno un sistema di supporto istituzionalizzato che le protegga nel caso decidano di discriminare le persone bianche.

C’è voluto lo sforzo congiunto di persone nere e bianche – durato un centinaio d’anni – per realizzare programmi come Affirmative Action negli Stati Uniti, ma è bastato un solo uomo bianco (Alan Bakke) e un solo caso giunto alla suprema corte per smantellare quei programmi sulla base dell’idea di costui di non essere stato ammesso alla scuola di medicina per via del suo essere bianco.

Il “Razzismo al contrario” dovrebbe pertanto descrivere una società in cui le leggi e i ruoli fossero rovesciati. Questo non è mai successo negli Stati Uniti, nonostante molt@ ideolog@ di destra lamentino di essere vittime dei pochi punti di uguaglianza che le minoranze e le donne sono riuscite ad ottenere. Le persone bianche che si lamentano del “razzismo al contrario” si lamentano in realtà del vedersi negati i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti. Si sentono in diritto di essere assunte, ad esempio, e non vedersi discriminate, anche se la norma è che siano le/ bianch@ a discriminare le persone nere. Se, in un caso isolato, un datore di lavoro nero discriminasse un/@ bianc@, non si tratterebbe del “contrario” di qualsiasi cosa, ma di discriminazione. Significherebbe essere condannat@ a prescindere, ma non rappresenterebbe la prova di qualche piano sistematico volto alla spoliazione dei diritti dei bianchi.

La destra ha reso popolare il termine “razzismo al contrario” perchè è furiosa di vedere messo in discussione il proprio privilegio bianco. Chiunque utilizzi quel termine, sia di destra o meno, sostiene la causa della destra. Questo è quanto affermo di fronte a quei Democratici e Progressisti che utilizzano tale termine – non solo stanno usando un termine sbagliato, ma stanno aiutando i propri avversari politici.

Queste argomentazioni si possono estendere a qualsiasi struttura di oppressione istituzionalizzata che riguardi la razza, l’etnia o il gruppo religioso di appartenenza, e può essere utilizzata anche nei confronti del cosiddetto “sessismo al contrario”.

Spero che questo post vi abbia chiarito un po’ le idee.

L’altr* “altr*”

di Vinamarata “Winnie” Kaur, originale qui.

Le persone intorno a me

cercano di definire la razza in termini di bianco o nero,

mi guardo…

In agguato tra i codici colore di ciò che è considerato “normale”.

Mi rivolgo al femminismo,

E vedo il movimento femminista occidentale ancora pieno di razzismo e specismo.

Mi sento allo stesso tempo inclusa ed esclusa.

Mi chiedono “Che cosa sei?”

Sono bianca o sono nera?

“Forse nessuna delle due, o forse entrambe; non sono affari tuoi “, rispondo.

Chi sono io e a quale movimento di giustizia sociale dovrei rivolgermi?

Gli altri impareranno mai a guardare oltre la mia Carne Bruna

E incanalare i loro chakra lontano dalle mie apparenze esterne?

Vedo persone intorno a me

Fumarsi e bersi vita e salute.

Socializzano nell’estasi degli allucinogeni

E vanno fiere delle bistecche grigliate ai barbecue estivi, mentre si burlano di vegetarian*e vegan che non condividono i loro piaceri carnali.

E mi guardo… Una femminista decoloniale, astemia, grassa, pelosa, vegan, isolata ed esclusa da quei circoli,

Isolata in compagnia dei miei libri.

Mi rivolgo a TV e film,

che mi ridicolizzano un’altra volta, con il loro sguardo bianco e le pubblicità che fanno vergognare del proprio corpo…

Chi sono io, se non l’Altr* “Altr*” in questa terra delle opportunità, unita eppure divisa?

Chiusa nei pochi spazi liminali che posso chiamare “casa”

Continuo a essere oppressa

Dalle catene stratificate dei binarismi trincerati nell’eteropatriarcato cis-maschio bianco,

Senza un’identità riconoscibile…

E che il Dipartimento della Sicurezza Nazionale ha chiamato, in un’occasione, straniera non residente

E ora chiama residente permanente,

Ancora spogliata del pieno riconoscimento assegnato alla sua “cittadinanza umana”.

Porto in me lo spirito dello schiavo nero,

E un corpo alimentato da piante,

E spargo la notizia che…

Sono diversa e senza un’identità,

Sono vegana e femminista non occidentale,

E va bene così.

Occupo i margini e le sfumature di questa società ossessionata dalla carne e dal colore,

Non solo a causa delle mie scelte alimentari o per l’invisibile purdah* che indosso sulla mia pelle,

Ma a causa della mia soggettività e delle esperienze vissute.

Chi dà a chicchessia il privilegio di escludermi dai limiti della “normalità”

E costringermi a classificarmi come bianca o nera / femminista o vegana?

Mi rifiuto di identificarmi come una o l’altra…

Perché #BlackLivesMatter, #BrownLivesMatter, #TransLivesMatter, #IntersexLivesMatter, #NativeLivesMatter e #NonHumanLivesMatter.

E non si dovrebbe più consentire a bianchezza, colonialismo e specismo di definire le nostre relazioni con i nostri corpi marginalizzati;

Sono una femminista vegana intersezionale, non bianca, asiatica del sud,

E queste sono parti irrinunciabili della mia identità multisfaccettata

Per le quali continuerò a lottare,

Fino al mio ultimo respiro.

* La purdah o pardaa è la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. Essa si attua in due modi: segregazione fisica dei sessi o imposizione alle donne di coprire i loro corpi al punto di nascondere la pelle e le loro forme.

 

Orgoglio di scimmia

“Proferiamo le parole ‘pienamente umano’ con un palpito di reverenza. I nostri occhi si appannano di fronte alla nostra peculiare umanità e il nostro autocompiacimento impenna. In tali momenti, dimentichiamo che la gorillità è più pacifica, la gufità più acuta visivamente, e l’apità più ecologicamente benigna. Le altre specie hanno capacità e qualità che a noi mancano, per quanto possiamo analizzare e inventare.”

(Animal equality: language and liberation, Joan Dunayer)

No, mi spiace… non ci sto alla retorica del “siamo tutte persone” proferita dalla maggior parte de* opinionist* in seguito all’assassinio di Fermo. A chi lo immagina e fa finta di nulla, a chi non lo immagina e non sa immaginare che possa esistere un’altra risposta alla violenza insensata, alla morte procurata per odio e per ignoranza, dico chiaro e tondo, una volta ancora, che alzare l’asticella che legittima la violenza non sarà mai la soluzione.

Perché agli animali si può fare tutto, e gli animali sono meno di niente, ed è per questo che Emmanuel Chidi Namdi è morto. Perché essere paragonati agli animali, che trattiamo da cose e non da individui senzienti, era per lui un’offesa che trascendeva la lampante constatazione che sì, siamo animali, e sì, siamo scimmie (o i loro più vicini parenti) e che sì, una scimmia ma anche un topo, o uno scarafaggio o un bigattino goloso di carne in putrefazione vale più del fascista che lo ha ammazzato.

Invece “scimmia” era per lui il peggiore insulto, perché se c’è un linguaggio comune ad oppressori ed oppressi è quello che mette gli animali non umani sul più basso gradino dell’esistente.

Non è appellandosi all’umanità, rinforzando il confine che ci separa dal resto del vivente, eternamente sacrificabile e sacrificato con l’indifferenza che caratterizza l’inutile ed inconsistente, che cesseranno eventi come questi. Fino a quando alcune vite varranno più di altre in nome di criteri arbitrari di merito, di simpatia o di somiglianza, nessun* potrà vedersi garantita la propria “non sacrificabilità”.

E lo affermo con convinzione e con la tristezza di chi sa che proprio ora, mentre scrivo, camion carichi di animali non umani compiono il loro ultimo infernale viaggio verso il macello, altri vengono torturati e ammazzati in ogni modo in nome della “scienza” ma anche della “noia”, dello “sport”, del “divertimento”, e che allo stesso modo, barconi carichi di migranti disperati affondano nel mare dell’indifferenza generale.

Quello che ha ammazzato Emmanuel era un fascista, punto. E L’Italia è piena di fascisti, dichiarati o meno, è un paese razzista e ignorante in un mondo in decadenza che vede ciclicamente impennarsi la violenza contro i più deboli per difendere i privilegi di pochi. Del disagio sociale di questo assassino, reale o presunto, non mi importa. Quello che mi interessa invece, è che ciò che permette alla violenza di manifestarsi è la convinzione che essa non sia intollerabile tout court.

Quello che non si dice, quando si afferma che la panacea di questi avvenimenti sia racchiusa nella convinzione che “siamo tutte persone”, è che sulle “non persone” è considerato accettabile usare violenza. Ovvero, chiunque, anche la persona all’apparenza più pacifica, ammette l’esistenza di un ambito nel quale la violenza è legittima, quella delle non persone, dei “non-umani”.

Se una cosa ci ha insegnato la storia, è che quel confine non è impermeabile, né dato una volta per tutte. E’ un confine poroso, ideato da chi ha il privilegio per escludere chi non deve averne neanche una briciola, e anzi può essere sfruttato a piacimento. In nome di questa consapevolezza, scelgo di stare dalla parte dei non bianchi, dei non etero, dei non abili e dei non umani. Quel confine lo voglio abbattere, una volta per tutte. E rivendico con orgoglio il mio essere scimmia.

Rifugio

Testo originale di Nina Simon qui. Tradotto da feminoska.
Il disegno è di Guy Denning.

Rifugio

In un’afosa sera d’estate
siedo in giardino
ricordando come
siamo arrivati con null’altro
che i vestiti che indossavamo
presso un indirizzo sconosciuto
scarabocchiato su carta sciupata
sognando salvezza,
una città lastricata di libertà.
Due camere squallide
in un caseggiato popolare
che puzzava di cavolo,
corpi sudici, pareti umide e muffe.
Dieci ore al giorno
la schiena curva sulla macchina in fabbrica,
contando i penny
da dare al padrone di casa per l’affitto
caldo estivo, gelo invernale.
Ma non sento più
il pestare degli stivali dei soldati
il fumo nero dalle case in fiamme,
nessun colpo sparato, nessuna donna stuprata
nessun fiume di sangue
scorre verso i campi di sterminio.