La polizia di genere e la donna vegan

Disclaimer: Sebbene sia abbastanza critica rispetto ad alcune delle tesi proposte, ad esempio il supposto apporto “femminile” delle attiviste, questo articolo presenta spunti interessanti di una critica che si potrebbe estendere alla maggior parte dei movimenti sociali. Ho deciso dunque di proporne la traduzione (originale qui.)

Buona lettura!

***

Utilizzo da sempre il mio account Facebook come strumento utile per l’attivismo sociale. Aprirsi pubblicamente su Internet, uno spazio creato da uomini per uomini, può essere pericoloso per qualsiasi donna. La donna vegan, tuttavia, deve affrontare ulteriori sfide. La maggior parte dei miei post sull’antispecismo attira l’attenzione di amici e conoscenti uomini arrabbiati o paternalistici, determinati a spiegarmi dove sbaglio nei miei post e perché non avrei dovuto pubblicarli. Sono stata spesso accusata di esagerata ostilità (o malattia mentale), a causa della mia franchezza in merito all’oppressione degli Animali Non Umani. Ho notato che i miei post su cultura dello stupro e pornografia hanno incontrato reazioni simili da parte di utenti di sesso maschile. Stranamente, i post su razzismo, classismo e diritti dei lavoratori (probabilmente argomenti più neutri rispetto al genere) hanno ricevuto poca o nessuna attenzione. Era come trovarsi perennemente in conflitto con uomini determinati a insegnarmi come essere una vera attivista (o, piuttosto, una vera signora) riguardo a questioni che sfidavano il loro privilegio.

Eppure, su Facebook ho trovato anche sostegno. Facebook mi ha aperto le porte di una più ampia comunità vegan. Mi ha permesso di fare rete e collaborare con attivist* di tutto il mondo. Ovviamente, come in qualsiasi spazio Internet, il trolling è stato spesso un problema, così come il feroce mantenimento dei confini “dentro al gruppo” / “fuori dal gruppo”. Quando infine sono diventata esplicita in merito alla mia intersezionalità e opposizione alle tattiche violente, ho iniziato a sospettare che le mie interazioni negative con i compagni attivisti riflettessero in realtà anche l’oppressione patriarcale.

All’inizio credevo si trattasse semplicemente di un conflitto a livello teorico. Avevo collaborato a lungo con un’organizzazione di base a maggioranza maschile, che si vantava del proprio approccio “razionale” all’antispecismo. Dopo circa un anno di interminabili dibattiti terminati con il mio venir bollata come “irrazionale”, ho tagliato i ponti con l’intero gruppo. Avevo osato suggerire che le esperienze delle donne sono fondamentali per qualsiasi campagna destinata a porre fine all’oppressione. Avevo osato sostenere che forse le donne stesse sarebbero le più adatte a condividere quelle esperienze e dare loro un senso. Il femminismo, avevano sentenziato, era un insulto al progetto razionale antispecista. Alcuni mesi dopo, scrissi un pezzo sul mio blog condannando l’appropriazione patriarcale del femminismo. Un teorico di spicco dichiarò in quell’occasione sulla sua pagina Facebook che

  1. Gli uomini possono essere femministi e suggerire altrimenti è sessista, e
  2. Solo i vegani possono essere femministi.

In altre parole, gli uomini stavano, ancora una volta, definendo il femminismo. La risposta al mio pezzo è stata assolutamente negativa… e maschile. Nell’affrontare la causa femminista, avevo oltrepassato i miei confini di donna in un movimento maschile.

Essere vegan presenta difficoltà e disagi per le donne. Strette tra l’incudine e il martello, le donne vegan – rifiutando il progetto patriarcale dello specismo – devono spesso fronteggiare la reazione maschile, ma allo stesso tempo lottare per ottenere rispetto nello spazio maschile dei movimenti sociali. Protestare contro lo sfruttamento degli altri animali (una relazione di potere e dominio) è, indipendentemente dal genere, un’azione femminista. D’altra parte, plasmare la cultura e sostenere il cambiamento sociale rimane un’attività molto maschile. La femminista vegana Carol J. Adams ha sottolineato come lo sfruttamento degli animali non umani rappresenti una forma di oppressione patriarcale. Sfruttare i corpi di gruppi vulnerabili per il proprio piacere o comodità, è un’estensione della violenza maschile sulle donne. La caccia, il mattatoio e la vivisezione, tre delle principali istituzioni dello sfruttamento di animali non umani, sono costituite principalmente da uomini.

L’ideologia che legittima il mangiare carne, indossare pelle, sperimentare su esseri senzienti non consenzienti e imprigionare o ferire esseri senzienti per divertimento è un’ideologia del dominio. Il ruolo delle donne in questa oppressione sistemica tende ad essere di aderenza ad un dogma e in gran parte il riflesso della propria oppressione. In Brutal: Manhood and the Exploitation of Animals, Brian Luke suggerisce che le donne abbiano storicamente preso parte al progetto specista, cucinando pasti carnei e assecondando il gusto del capofamiglia. La pletora di cosmetici e indumenti di pelle animale commercializzati per le donne, sono legati allo status privilegiato degli uomini. Le donne si adornano con prodotti di bellezza per interpretare il proprio ruolo di oggetti ad uso dello sguardo maschile. Le pellicce vengono spesso regalate dagli uomini alle donne come mezzo per dimostrare il proprio status.

Naturalmente, molte donne hanno ottenuto un certo potere in questo ruolo “sottomesso”. Le donne hanno reso popolare il movimento del biologico grazie alla loro posizione strategica come acquirenti e cuoche. Allo stesso modo, i prodotti femminili spesso non sono testati su animali. Se gli uomini storicamente sono stati coloro che “portavano a casa il pane”, le donne sono state spesso le principali consumatrici. I pubblicitari ne sono sempre stati consapevoli, e questo ha garantito alle donne una certa influenza. E mentre molte donne sono rimaste incastrate nel progetto patriarcale da potenti processi di socializzazione, altre hanno attinto agli stereotipi femminili per esprimere la propria preoccupazione per gli altri animali, ma in un modo che fosse comunque “socialmente accettabile”.

Le donne sono state da sempre ritenute maggiormente predisposte alla cura e affini al mondo naturale, e questo preconcetto ha permesso alle donne dell’era progressista di entrare nella sfera pubblica della difesa sociale come “governanti della natura”. Si ritiene che questa associazione tra donne e natura sia alla base dell’ampia partecipazione femminile (circa l’80%) al movimento animalista. Questi stereotipi sono certamente limitanti. Le attiviste donne sono spesso incoraggiate a dedicarsi ad un attivismo blando, ad esempio al volontariato nei rifugi. Molte si limitano a compiti banali dietro le quinte, e molte vengono ancora incoraggiate a spogliarsi durante le proteste pubbliche e nelle campagne pubblicitarie.

Le donne che si spingono oltre ai confini dell’attivismo appropriato per il gentil sesso, spesso devono affrontare rappresaglie feroci. Le stesse qualità per cui gli uomini sono ammirati – schiettezza, leadership, spirito d’iniziativa, forza – sono considerate negativamente nelle attiviste più coraggiose. Queste donne vengono definite prepotenti, rumorose, odiose e pazze. In una parola, poco femminili. Il ruolo giocato dal genere nelle interazioni tra i sostenitori dei diritti degli animali non umani, il pubblico e gli altri movimenti non è passato inosservato. Studi sociologici hanno dimostrato che molte campagne falliscono in parte a causa degli stereotipi di genere che interpretano l’attivismo femminile come eccessivamente emotivo, irrazionale e inconsapevole della “necessità” dello sfruttamento.

Di conseguenza, il movimento animalista ha avuto la tendenza a glorificare le tattiche maschili (razionalità e azione diretta) e banalizzare quelle considerate femminili (intersezionalità e non violenza). Il professor Steve Best dell’Animal Liberation Front, ad esempio, è fortemente critico nei confronti degli approcci non violenti, o di quello che definisce “pacifismo”. La pacifica educazione vegana, avverte, aiuta gli sfruttatori e facilita le istituzioni oppressive. Nelle conferenze registrate in cui Best sostiene, a voce alta, i pregi di vandalismo, minacce e aggressioni fisiche (e lo fa in stanze piene di donne), non si può fare a meno di chiedersi se il suo vero problema non sia la preponderanza femminile nell’attivismo animalista.

L’attivismo animalista è una forma di protesta politica che spesso ha un’enorme influenza sull’identità di una donna. Ma sfidare l’istituzione dello sfruttamento animale significa sfidare l’istituzione del dominio maschile. Da una parte, le donne che assumono tratti considerati “maschili” nel proprio attivismo incontrano ostilità. Dall’altro, le donne che interpretano il loro genere “in maniera appropriata” non vengono prese sul serio a causa della loro femminilità.

Molt* studios* hanno criticato l’oggettivazione sessuale delle attiviste messe in atto dalle campagne PETA, ma solo una manciata ha problematizzato il sessismo che struttura il movimento nel suo complesso. E un numero ancora minore di attivist* si è espresso in merito alla discriminazione e alla polizia di genere.

L’esperienza femminile viene per lo più omessa dai discorsi relativi alla liberazione animale. Anche le politiche antirazziste tendono ad essere ignorate in ambito animalista. Un post del 6 giugno 2013 su un sito web antispecista, Free From Harm, invitava i lettori a “aiutare a fermare la pratica del “live sushi”, definita “barbara”, “volgare” e “una vergogna per il popolo giapponese”. Ho risposto suggerendo che una simile campagna può avere il risultato di rafforzare il razzismo strutturale. Sensazionalizzare atti di crudeltà specifici commessi da persone non bianche incoraggiano il pregiudizio e facilitano il senso di superiorità bianco. Ricevetti una risposta molto simile a quella che ebbi in occasione del mio post contro il sessismo. Molti attivisti, per lo più bianchi, mi attaccarono brutalmente, accusandomi di “giocare la carta della razza” per creare intenzionalmente problemi. Uno mi ha anche diagnosticato un disturbo mentale.

Di converso, la razza gioca un ruolo fondamentale, e le persone di colore sono spesso strumentalizzate. Difatti, le più becere espressioni di razzismo (ad esempio la schiavitù) sono usate come termine di paragone dall’antispecismo. Tuttavia, come ha spiegato la studiosa vegan femminista Breeze Harper, le esperienze quotidiane di razzismo vissute dalle persone di colore vengono ignorate, o negate, negli sforzi di sensibilizzazione vegani. Le organizzazioni più importanti prestano poca o nessuna attenzione alla realtà del razzismo ambientale, ai deserti alimentari e alla lotta antirazzista. Mentre Harper e altre donne vegan di colore hanno parlato di questa marginalizzazione, il movimento animalista tende ad operare come se ci si trovasse in una società post-razzista dove la schiavitù e la discriminazione appartengono al passato. Questa posizione post-razzista presuppone che tutt* abbiano lo stesso accesso alle alternative vegan, e che le persone di colore di oggi siano disconnesse dalla propria storia di colonizzazione e razzismo.

La storia ci ha mostrato che le donne possono dimostrarsi una forza potente nell’attivismo per il cambiamento sociale. Eppure, nell’arena dei movimenti sociali, quali tattiche e strategie siano legittime e utili è ancora deciso dagli uomini (e dalle donne socializzate a sostenerli). Il movimento animalista presenta un ulteriore livello di complessità, in quanto lo specismo è una propaggine del patriarcato e il movimento stesso conserva una gerarchia di comando patriarcale. La polizia di genere e l’omissione della critica femminista ha la sfortunata conseguenza di rafforzare gli stereotipi sessisti e limitare i potenziali contributi delle donne. Questa omissione rende difficile costruire ponti verso gli altri movimenti sociali. In definitiva, la concezione del movimento rispetto all’oppressione è frammentaria, e l’antispecismo rischia di essere tutto fuorché inclusivo.

Un pensiero su “La polizia di genere e la donna vegan

  1. Grazie alla mia compagna, da poco mi sto dando al veganesimo, che rispetto alla dieta vegetariana che da anni ho praticato, porta in se anche un’istanza politica molto importante, che in questo finissimo articolo salta fuori. Le battaglie da svolegere sono ancora tante, ma come donna trans lesbica vegana nutro comunque speranza per il futuro.

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