Non ricordo esattamente quanti anni avessi: credo tredici, mese più, mese meno.
Lui era un compagno di scuola, non mi torna in mente il suo nome, solo vagamente il suo viso: ma aveva gli occhi di un blu quasi elettrico, e fama di essere un bullo, cosa che lo rendeva spaventoso ma al tempo stesso affascinante. Io stavo entrando nell’adolescenza, il seno mi era cresciuto nel giro di qualche mese, e questo mi rendeva felice, confusa, stranita. Ridevo di non riuscire più, guardando verso il basso, a vedermi i piedi. Mi sognavo già donna con la d maiuscola, anche se la metamorfosi era appena cominciata, ed ero più che altro una bambina che anelava disperatamente ad un reggiseno.
Il cambiamento fisico non era passato inosservato ai miei compagni di scuola; e io, che fino ad allora ero stata solo una piccola scimmia selvaggia che con i maschi tutt’al più giocava a guardie e ladri – prendendo e rifilando calci, morsi e cazzotti senza esitazione – e la cocca di papà (unico uomo che io guardassi adorante) di colpo mi sentivo gli occhi puntati addosso continuamente… e in realtà non sapevo bene come prenderla, questa attenzione tutta nuova. A volte ne ero orgogliosa. A volte mi faceva sentire a disagio, ed erano i momenti in cui volevo tornare a occupare lo spazio intorno a me senza sentirmi osservata, libera e felice.
Io comunque con lui non è che ci avessi mai parlato tanto, perché ero di una timidezza quasi patologica: forse avevo risposto a monosillabi alle sue dichiarazioni spavalde, di sicuro non avevo scambiato più che poche battute.
Insomma, sicuramente quel ragazzino sarebbe potuto scivolare nell’oblio del passato remoto della mia infanzia, se non fosse per un episodio che sarebbe rimasto così impresso nel mio corpo e nella mia mente da diventare indelebile… e tornarmi in mente, decenni dopo, quando ho saputo dei fatti di Colonia.
Era una giornata di inizio primavera, e stavo tornando a casa da scuola; camminavo da sola, e alle mie spalle c’era lui, il ragazzino dagli occhi elettrici e un suo compagno. Li sentivo parlottare e ridacchiare dietro di me, ogni tanto mi rivolgevano la parola, una battuta, una domanda scherzosa; percepivo il loro sguardo, ma non mi sentivo minacciata, avvertivo solo che, rispetto a qualche tempo prima – pochi mesi – si era alzata una barriera impalpabile ma impenetrabile tra me e loro: non eravamo più pari, non giocavamo più insieme come prima, c’era imbarazzo e ansia, sensazioni confuse e vergogna… e guance perennemente arrossate.
A poche centinaia di metri da casa, dal nulla, sento distintamente mormorare alle mie spalle: “Adesso vedrai, le tocco le tette!” Mi volto di scatto, e vedo che lui è partito di corsa per raggiungermi: non ci penso un secondo, e comincio a correre, a scappare via. Mentre correvo, mille pensieri confusi si affollavano nel mio cervello pompato d’adrenalina: la fuga era stata istintiva, ma dentro di me dopo pochi secondi si era fatta strada l’incredulità… cosa stava succedendo? Forse stava solo scherzando, e allora se mi fossi fermata non sarebbe successo nulla… E se invece lo avesse fatto? Allora quello che dicevano su di lui era vero! Era davvero una persona pericolosa! E mi domandavo per quanto avrei dovuto continuare a correre, prima che si stancasse di starmi dietro, o perché riuscissi – chissà come – a seminarlo.
Questi i miei pensieri di animale braccato, mentre mi buttavo avventatamente in mezzo alla strada, senza nemmeno guardare.
Ad un certo punto, all’ennesimo incrocio e ormai convinta di averlo seminato, mi fermo di scatto prima di essere investita da un’auto che aveva svoltato all’improvviso…in quel momento lui mi raggiunge, e mi piazza le mani sul petto, fortunatamente coperto da molti strati e dal giubbotto per via del freddo… io mi giro rabbiosa pronta ad affrontarlo, ma la sua reazione mi spiazza…il ragazzino dagli occhi elettrici si allontana a passo tranquillo ridendo, lasciandomi nel mezzo della strada. Aveva ottenuto il suo trofeo.
Mentre tornavo a casa prendendo un’altra via, a passo veloce e sempre guardandomi le spalle, non sapevo che quel giorno avrebbe segnato l’inizio di una nuova consapevolezza, una consapevolezza che è cresciuta insieme a me e che negli anni a venire sarebbe diventata anche la mia forza. Da quel giorno mi è diventato chiaro come quel corpo che fino ad allora era stato solo mio, non lo era più. O meglio: per me lo era ancora, ma per le persone di sesso maschile che avevo intorno le cose erano assai cambiate. E a volte, decidevano di volerselo prendere, a pezzi o tutto intero, senza chiedere il permesso, addirittura consapevoli di non avere il mio consenso. Avrei dovuto lottare.
Ho iniziato ad accorgermi di mille occhi puntati perennemente su di me. Sguardi insistenti, giudicanti, desideranti; avrei imparato a tirare dritto quando un uomo molto più vecchio, in una strada buia alle 7 di un pomeriggio d’inverno, di fronte al mio terrore di ragazzina cominciava a menarselo mormorandomi “guardami… guardami”. A non accettare i cocktail offerti con tanta generosità da conoscenti o sconosciuti, nella speranza di ubriacarti abbastanza da indurti ad essere più compiacente nei confronti di attenzioni non richieste. A rivivere quella sera d’inverno, anni dopo, per mano di un “amico” che mi stava riaccompagnando in taxi a casa dopo una serata insieme a ballare, e che cominciava a balbettare “scusami… scusami” dopo avermi visto quasi buttarmi fuori dal taxi in corsa.
Lo sconosciuto che mi piazzava le mani addosso sul tram da un buco nel cappotto, l'”amico di famiglia” che con la scusa della preoccupazione per la mia salute mi infilava la mano nei pantaloni, lo “stimato professionista” che a lavoro mi dava una pacca sul sedere ridendo, per poi fuggire (da vero codardo) infilandosi in una sala riunioni dove era atteso da personaggi tali e quali a lui. I neopapà – oh, quanti neopapà – alla ricerca disperata di una via di fuga da un ruolo cercato per convenzione e poi temuto e sconfessato.
Quando ho sentito dei fatti di Colonia, mi è tornato tutto in mente. Non volevo scrivere di quegli avvenimenti, perché non li ho vissuti ma soltanto sentiti raccontare da lontano, perché sono stati terribilmente strumentalizzati e sono ancora strumentalizzabili. Ma quegli occhi blu elettrico me li sono trovati di fronte un’altra volta, e la ragazzina che c’è in me mi ha chiesto di interrogarli, ora che non mi fanno più paura.
E non ho potuto che darle ragione: per una donna, Colonia è ogni giorno.
(Yves Klein nell’immagine di copertina e in questa foto delle Antropometrie: il suo è il blu più elettrico che abbia mai visto in vita mia.)
[…] da AnimAliena: […]
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