Non chiederò scusa per ciò di cui ho bisogno

Traduzione dell’originale I will not apologize for my needs.

Anche nel corso di una crisi, i medici non dovrebbero abbandonare il principio di non discriminazione.

Di Ari Ne’eman

Ne’eman è scrittore e attivista per i diritti dei disabili.

23 marzo 2020

I tempi di crisi ci mettono in discussione come paese. Mentre gli ospedali si preparano alla carenza di respiratori e altre risorse mediche limitate, molte persone disabili sono preoccupate di quale sarà la risposta a questo problema.

In Italia, i medici hanno già cominciato a selezionare la possibilità di accesso alle cure in base all’età e alla disabilità. Il Washington Post riferisce che molti stati americani stanno prendendo in considerazione di utilizzare analoghe misure di razionamento delle risorse. Sebbene quasi tutti concordino sul fatto che i medici possano sospendere quelle cure che difficilmente porterebbero reale beneficio ad un paziente, presto potrebbero esserci tropp* pazienti che hanno urgente bisogno di cure salvavita, e troppo poche risorse per curarl* tutt*.

Quando ciò dovesse accadere, alcun* propongono di lasciare indietro le persone disabili. Gli stati di tutto il paese hanno ripreso in mano le linee guida di cura in tempo di crisi – documenti che spiegano come vadano modificate le cure mediche di fronte alla mancanza di risorse nel mezzo di una catastrofe senza precedenti. Nonostante le molte differenze, hanno un denominatore comune e preoccupante: quando non ci sono abbastanza cure salvavita a disposizione, chi ha bisogno di più di altr* potrebbe trovarsi nei guai.

Alcune linee guida individuano condizioni particolarmente gravi, come la decisione dell’Alabama per cui le persone con disabilità intellettiva grave o profonda “sono candidate improbabili per il supporto con il respiratore” o il Tennessee, che elenca le persone con atrofia muscolare spinale (che hanno bisogno di assistenza in molte attività della vita quotidiana) tra le persone escluse dalle cure critiche.

Altre definiscono semplicemente un obiettivo generale, contando sul giudizio clinico per fare il resto. Le linee guida di redistribuzione delle risorse, emesse recentemente dal Medical Center dell’Università di Washington, sostengono che sia sensato “dare la priorità alla sopravvivenza dei pazienti giovani e sani rispetto a quella dei pazienti più anziani e cronicamente debilitati”. L’esistenza dei disabili non anziani, un gruppo sempre più preoccupato per la propria vita, non viene riconosciuta.

Le persone con disabilità hanno molte e complicate questioni in sospeso con gli esponenti della professione medica. Mentre molte persone disabili hanno bisogno di cure mediche continue, un gran numero di medici considera la vita di chi ha determinate disabilità come indegna di essere vissuta. Le persone disabili che necessitano di cure continue – come l’uso del respiratore (e altre forme costose di assistenza) per tutta la vita – sono abituate a sentirsi chiedere dai professionisti del settore medico se non preferirebbero interrompere le terapie, spesso dando per scontato che “sì” sia la risposta giusta.

Quando i miei amici e le mie amiche che hanno bisogno di queste cure finiscono in ospedale, anche in circostanze normali, chi tra noi gli vuole bene organizza molte chiamate telefoniche e visite, non solo per tenere alto lo spirito del paziente. Vogliamo inviare un messaggio ai professionisti medici: “A qualcuno importa se questa persona vive o muore. Vi teniamo d’occhio.”

Con le attuali restrizioni sulle visite e le molte fonti autorevoli che ammettono esplicitamente la possibilità di negare le cure alle persone disabili, quel messaggio riuscirà ad arrivare? Temo di no.

Anche quando la discriminazione non si basa sulla percezione della qualità della vita, ma piuttosto su considerazioni apparentemente “razionali” come quelle della disponibilità di risorse, dovremmo opporci all’idea di mettere i disabili in secondo piano quando si tratta di terapie mediche.

Le linee guida cliniche italiane stabiliscono che “la presenza di comorbilità e lo stato di salute generale” vengano prese in considerazione per decidere come assegnare le risorse, in quanto “una progressione relativamente veloce nei pazienti sani potrebbe diventare più lunga – e quindi consumare maggiormente le risorse del sistema sanitario – nel caso di pazienti anziani, fragili o con gravi comorbilità”.

Questa idea appare tanto logica quanto preoccupante: i pazienti e le pazienti con disabilità possono richiedere più risorse rispetto a chi non è disabile. Nel corso di una crisi, chi non presenta disabilità può essere salvato in modo più efficiente. Di conseguenza, quando i medici devono scegliere tra un paziente disabile e uno non disabile con livelli di necessità altrettanto urgenti, i pazienti non disabili dovrebbero avere la priorità, poiché si riprenderanno più rapidamente, e le risorse ormai scarse torneranno più velocemente disponibili.

L’adozione di tale approccio sarebbe un errore. Anche nel corso di una crisi, le autorità non dovrebbero abbandonare il principio di non discriminazione. Se si consente ai medici di discriminare coloro che hanno bisogno di maggiori risorse, forse si risparmierebbero più vite. Ma le fila dei sopravvissuti sarebbero molto diverse, polarizzate dalla parte di coloro che non avevano disabilità prima della pandemia. L’equità verrebbe sacrificata in nome dell’efficienza.

Un simile approccio non solo dà prova di un’etica opinabile, ma può anche interferire con gli sforzi per combattere la pandemia.

Nel 2015 il Dipartimento della salute dello Stato di New York ha presentato alcune linee guida su come gestire i respiratori in caso di crisi. Tra le altre cose, tali linee guida consentono agli ospedali di togliere i respiratori a coloro i quali li utilizzano su base continuativa a domicilio o nelle strutture di lungodegenza, se questi ultimi cercano cure ospedaliere. Non è soltanto un precedente preoccupante, ma interferisce anche con la necessaria fiducia nel sistema medico, di cui abbiamo bisogno per combattere il virus: chi ha bisogno per vivere di respiratori potrebbe avere validi motivi per evitare, in caso di infezione, di rivolgersi agli ospedali, sulla base di un timore fondato di essere sacrificato “per il bene superiore”.

Ho parlato con una mia collega, Alice Wong del Disability Visibility Project, in merito a questi temi. Temi che la riguardano molto da vicino, trattandosi di una quarantaseienne che usa regolarmente un respiratore.

“Il respiratore è parte del mio corpo – non posso rimanere senza di esso per più di un’ora al massimo, a causa della mia disabilità neuromuscolare. Un medico che mi togliesse il respiratore, farebbe violenza alla mia persona e mi porterebbe alla morte “, scrive Alice. “Merito gli stessi trattamenti di qualsiasi paziente. In quanto disabile, ho lottato per esistere con le unghie e coi denti da quando sono nata. “Non chiederò scusa per ciò di cui ho bisogno”.

Ed ha ragione. Consentire la discriminazione nei confronti dei disabili, anche quando le risorse scarseggiano, è semplicemente sbagliato. Le persone impegnate nell’attivismo disabile si stanno mobilitando per difendere questa posizione – Giovedì, l’American Association of People with Disabilities ha inviato una lettera al Congresso esortando “il divieto, sancito legalmente, di razionare le risorse mediche più scarse sulla base di previsioni e considerazioni sull’utilizzo di dette risorse”.

Sebbene alcuni la pensino diversamente, dobbiamo mantenere un approccio ad ampio respiro, ovvero quello del “primo arrivato, primo assistito” quando si tratta di cure salvavita, anche nel caso di risorse mediche scarse come i respiratori. Non dovremmo certamente portare via i respiratori a coloro che li stanno già utilizzando in nome di un utilizzo “efficiente”delle risorse.

E’ un sacrificio, ma non così grande come alcune persone potrebbero immaginare. Il mantenimento del principio di non discriminazione non richiede agli ospedali di curare coloro che morirebbero comunque. Anche in situazioni non catastrofiche, i medici possono sospendere quelle cure considerate inutili e inefficaci dal punto di vista medico. Ma tra chi può essere aiutato, chi presenta disabilità preesistenti non dovrebbe avere una priorità più bassa, anche quando si tratta di risorse mediche scarse.

Sono consapevole che questo approccio ha un prezzo. Mantenendo il principio del “primo arrivato, primo assistito” quando si parla di cure salvavita, possiamo salvare meno vite rispetto all’ottimizzazione spietatamente efficiente. Se qualcuno ha bisogno di restare il doppio del tempo attaccato a un respiratore, sostenere che non dovremmo spegnerlo – o privare quella persona del respiratore che già sta utilizzando – significa che potenzialmente stiamo mettendo a repentaglio la vita di due persone che entrano in terapia intensiva dopo di lei.

Ma anche nel corso di una crisi, non possiamo attribuire il giusto peso al restare fedeli ai nostri principi? Credo di sì, anche se questo può costare delle vite. Questa posizione non è ortodossa, e potrebbe scatenarmi contro l’ira degli stimati bioeticisti che hanno elaborato i protocolli di razionamento che stanno per essere messi in atto.

Ma combatto, perché credo che la non discriminazione non sia solo uno strumento per raggiungere un fine, ma anche un fine in sé e per sé. Le autorità federali, come l’Health and Human Services Office of Civil Rights, devono difendere l’uguaglianza degli americani disabili, anche in questa occasione.

In sostanza, questi dibattiti riguardano il valore: il valore che attribuiamo alla vita dei disabili e il valore che attribuiamo alla non discriminazione della disabilità. Quando il Congresso ha approvato l’American With Disabilities Act 30 anni fa, lo ha fatto come forma di beneficenza limitata ai periodi di abbondanza? O il nostro Paese era sincero quando affermava che la disabilità è una questione di diritti civili? La carità può finire quando le risorse sono scarse, ma i diritti civili devono continuare, anche se ciò comporta un costo in termini di tempo, denaro e persino vite. Le persone con disabilità hanno pari diritto alle scarse risorse della società, anche in tempi di crisi.

Ari Ne’eman è Visiting Professor presso il Lurie Institute for Disability Policy dell’Università di Brandeis e studente di dottorato in politica sanitaria presso l’Università di Harvard.  Attualmente sta lavorando ad un libro sulla storia dell’attivismo disabile in America.