RISPOSTA DI UNA MALATA CRONICA ANTISPECISTA AGLI STUDENTI DI PARMA E DI TORINO, FAVOREVOLI AL PROGETTO LIGHT UP

Car* studenti,

ho letto con interesse la vostra lettera aperta, sperando di trovare spunti di riflessione differenti da quelli triti e ritriti in cui mi sono imbattuta nel corso degli anni, ma ahimè con disappunto ho notato che la narrazione che proponete resta quella ormai a me ben nota, e ho deciso pertanto di scrivervi queste poche righe di risposta, nella speranza di arricchire la vostra riflessione con il mio punto di vista di malata e attivista antispecista.

Mi presento brevemente, sono da molti anni un’attivista femminista e antispecista e sono anche una malata cronica. Non credo sia importante specificare quali siano i miei problemi di salute, vi basti sapere che a tutt’oggi non prevedono una cura, e sicuramente impattano in molti modi sulla mia qualità di vita. Penso pertanto di avere il diritto di dirvi cosa ne penso di quanto da voi espresso nella lettera, anche perché, a dirla tutta, sono stufa di chi, student* o ricercator*, prende la parola per me e per chi, come me, soffre di patologie non curabili. Parlate per i “poveri malati” ma non siamo tutt* uguali: ci sono persone che, pur di guarire (o illudersi di guarire) farebbero di tutto, e quando dico di tutto intendo non solo che appoggerebbero la sperimentazione animale, ma probabilmente sarebbero disposte anche a sacrificare altre persone (che reputano magari meno importanti di loro) per raggiungere lo scopo. Io sono la prima a sapere che la sofferenza ci porta a sragionare e a pensare in certi momenti che “valga tutto” se ci permette di eliminarla, ma so anche che i momenti di disperazione passano, e che non ci definiscono. E, in ogni caso, so che non tutti i malati sono così.

Io ad esempio non sono così, e se mi chiedeste quello che voglio, vi direi che desidero uno sviluppo scientifico che vada di pari passo con uno sviluppo morale ed etico. È ora di smetterla di pensare che si debba scegliere, etica da una parte, scienza dall’altra. I dualismi non sono produttivi, la vita e le scelte delle persone sono colme di sfumature, trovare l’equilibrio è come camminare su un filo sottile… ma è l’unica cosa che valga la pena cercare con tutte le forze. La scienza non è onnipotente, è uno strumento creato dall’essere umano che può essere usato molto bene ma anche molto male.

Chi è malato sa che l’essere umano non è onnipotente e che ci sono dei limiti che non possono essere superati. Chi è malato ha bisogno di molte cose, certamente della ricerca, purché etica, ma non solo: si parla sempre e solo di ricerca, anche perché smuove interessi economici enormi (non fingiamo di non saperlo), ma si parla pochissimo, per non dire quasi nulla, di sostegno a chi è malato. La persona malata ha bisogno di essere aiutata nel quotidiano, di non essere discriminata, di non essere lasciata sola, di sostegno economico e di tutto quanto può dare un senso alla vita, e anche alla sofferenza. Se potessi scegliere, preferirei con tutte le mie forze sapere che la società fa di tutto per sostenermi nelle mie difficoltà quotidiane e non mi discrimina nella mia malattia, piuttosto che sapere che quelle preziose risorse saranno utilizzate per torturare altri esseri viventi, esseri che come me aspirano a una vita libera e felice. Io non voglio che la speranza del mio benessere e della mia felicità siano motivo di tortura per altre vite, umane o animali che siano. 

Mi addolora che degli studenti universitari, persone giovani e nel pieno della vita, abbiano già introiettato così tanto in sé stess* le dinamiche di potere, di dominio e lo specismo da essere ciechi alla realtà e alla complessità della vita umana, e in particolare della vita delle persone malate. Su di una cosa non mi sento di darvi torto: la vivisezione (le parole sono importanti, è vero, e io uso questa parola coscientemente, politicamente, così come utilizzo la parola lager al posto di CIE) è la punta dell’iceberg del dominio specista: quel dominio che rende lecito disporre dei corpi animali in qualunque modo ci garbi, per divertimento, cibo, abbigliamento, sperimentazione, e chi più ne ha più ne metta. Ed è contro questa forma mentis, contro questa narrazione che mi scaglio con tutta me stessa, con la mia vita e sulla mia pelle. Vi chiedo di non parlare per me, di non dire che “i malati lo chiedono”, io sono malata e non solo non ve lo sto chiedendo, ma anzi mi batto con tutta me stessa, da una vita, per evitarlo!

Il vostro ragionamento è così influenzato dal pregiudizio di specie che non riconoscete la violenza che usate sui corpi di questi animali, eppure parlate di violenza quando si manifesta il dissenso! Sappiate che chiunque sia oppresso non ha mai ottenuto nulla “chiedendo gentilmente”. La rabbia, il dolore e l’ingiustizia si combattono anche con la forza, con la determinazione. Non confondete forza e violenza, non sono la stessa cosa. Tutti i movimenti di giustizia sociale hanno dovuto lottare con i propri corpi e le proprie vite in prima linea per difendere ciò che è giusto, altrimenti chi mai avrebbe ascoltato la voce del più debole? Se una parola gridata, persino un insulto, è violento, cos’è un bisturi che lacera la carne?

Prendere un essere vivente capace di emozioni, sentimenti, pensiero, di provare gioia, angoscia e dolore; privarlo della libertà, degli affetti, sottoporlo a torture e dolore fisico ed angoscia psicologica per poi eliminarlo alla fine dell’esperimento è tortura, che l’essere vivente in questione sia umano o animale. E la “tortura etica” è un ossimoro. Non riconoscere il limite del nostro dominio sugli altri esseri viventi ci ha portato alle peggiori atrocità commesse dall’umanità, anche sull’umanità stessa. Ci ha portato allo sfruttamento, allo schiavismo, allo stupro, a tutto quanto di orrendo al mondo esiste. Non possiamo decidere a chi spetta una buona vita, perché in tal modo sarà sempre il più forte a decidere il destino del più debole, e queste tragedie non avranno mai fine, come dimostra l’indifferenza che mostriamo, noi europei colti e “civilizzati”, nei confronti delle popolazioni povere e oppresse, che guardiamo con indifferenza scivolare nel mare profondo mentre facciamo aquagym sulle spiagge.

Per uscire dal paradigma del dominio bisogna avere coraggio, essere disposti a non accettare ogni cosa in nome del nostro egoismo, del nostro interesse particolare; concepire l’esistente in maniera diametralmente differente, dare più che aspettarsi di ricevere, e accettare la finitezza della nostra vita. Vivere una vita etica e sviluppare la compassione significa capire che mai esisterà un bene assoluto se deriva da un male assoluto. Nessuno è perfetto e nessuno può vivere una vita completamente priva di ingiustizia, ma se tendiamo alla massima giustizia sicuramente potremo cambiare questo mondo cosi ingiusto, un mondo che oggi si basa sul dominio del più forte sul più debole, dell’oppressore sull’oppresso; non c’è nessuna causa che possa dirsi virtuosa se si basa sull’oppressione.

A volte significa fare delle scelte difficili, ma la nostra forza morale non sta nel cercare solo quanto ci conviene, ma anche quanto sappiamo essere giusto benché scomodo, in onore anche delle tante persone che, nel corso della storia, hanno scelto la via più tortuosa, rinunciando persino alla vita, per percorrere quella strada di giustizia.

Come persona che, da quando era molto giovane, vive la difficoltà di una vita “imperfetta” esigo che non vi facciate scudo della mia sofferenza come giustificazione delle vostre azioni, perché questo sarebbe un ulteriore torto a quelli che già vivo sulla mia pelle e che non ho potuto scegliere. Io desidero una scienza giusta, una scienza etica che non infligga dolore e sofferenze ad alcuno, a maggior ragione a chi è più debole, perché io so cosa significa essere debole, so cosa significa soffrire, e mai, per tutto l’oro del mondo, vorrei che altri provassero quello che provo io!

Le mie difficoltà quotidiane e la mia salute precaria non saranno mai l’alibi delle vostre scelte.

‘Gunda’: il mondo visto attraverso lo sguardo incredibile di un maiale

Traduzione di questo articolo. Grazie a Sarat per averlo condiviso.

Questo sorprendente documentario offre uno sguardo intimo alla vita di una scrofa, dei suoi turbolenti maialini, di un pollo con una zampa sola e di una mandria di mucche.

Di Manohla Dargis, 10 dicembre 2020

Cosa vedono i registi quando guardano gli animali? Non molto, a quanto pare: per la maggior parte, gli animali nei film sono uno sfondo suggestivo: un gatto solitario alla finestra, un cavallo in un prato intravisto da un’auto. A volte sono simboli, come i tanti coniglietti sacrificati dal cinema (‘La regola del gioco’ et al.). Altre volte, gli animali vengono scelti come compagni elettivi, e molti cani hanno interpretato questo ruolo sullo schermo. Eppure, anche in film come ‘Old Yeller’ e ‘Best in Show’, gli animali sono solitamente al servizio della storia umana, dei nostri sentimenti e delle nostre lacrime.

Il sorprendente documentario “Gunda” offre un altro modo di guardare gli animali. Sublimemente bello e profondamente commovente, offre l’opportunità di osservare – gli animali, sì, ma anche qualità spesso subordinate nei film guidati dalla narrazione: trame leggere,  forme e luce. La storia è apparentemente semplice: per la maggior parte dei 93 minuti, il film si concentra su una scrofa e sui suoi maialini. Per un breve lasso di tempo razzoliamo con le galline, incluso un uccello con una gamba sola straordinariamente agile. In un altro, le mucche galoppano in un campo nebbioso per pascolare, un intermezzo da sogno pastorale che nei romanzi e nei dipinti di paesaggi richiama altre rappresentazioni, ma è in realtà visivamente stupendo di per sé.

“Gunda” è il progetto appassionato del regista russo Victor Kossakovsky (“Aquarela”), che voleva realizzarlo da anni. (Finanziare film è sempre difficile; finanziare documentari come questo è eroico.) Il suo approccio è semplice ma ingegnoso. Girando in digitale e in bianco e nero, senza musica, voce fuori campo o testo sullo schermo – e neppure persone – apre una finestra intima sulla vita degli animali. La sua star, per così dire, è Gunda, una prodigiosa scrofa di età incerta che, all’apertura del film, ha appena dato alla luce una cucciolata di una dozzina di maialini. Sebbene abbia un’etichetta fissata all’orecchio, l’ampio recinto suggerisce che non si trovino in un allevamento intensivo: che sollievo.

Kossakovsky ha trovato Gunda in una fattoria norvegese non lontano da Oslo, in quello che ha definito il primo giorno di casting. A quel punto, lui e il suo team hanno costruito una replica del suo recinto in modo da girare le scene all’interno rimanendone fuori. Come si può immaginare questo escamotage gli ha consentito di cogliere il punto di vista intimo senza, presumibilmente, disturbare troppo gli animali. (Kossakovsky ha affermato di aver usato una palla da discoteca fissa – mai inquadrata, ahimè – per illuminare l’interno.) Sono state montate anche delle rotaie per effettuare le riprese in esterna, in modo da poter seguire Gunda e la sua cucciolata mentre legano tra loro, giocano, vagano e prendono il sole all’aperto.

I risultati sono affascinanti. Il film si apre con Gunda che si distende (il passatempo preferito) su un letto di fieno, il suo corpo all’interno del recinto e la sua testa incorniciata sulla soglia. È il paradiso dei maiali. Kossakovsky – che ha condiviso il lavoro con Egil Haskjold Larsen – tiene fissa l’inquadratura abbastanza a lungo da permetterci di ammirarne i dettagli precisi e la simmetria compositiva. E poi: azione! Di fronte alla telecamera, un maialino delle dimensioni di una delle orecchie di Gunda si arrampica sopra la sua testa tra mille stridii e scivola sul fieno all’esterno. E poi, mentre la mamma grugnisce ritmicamente, un altro maialino, e poi un altro, scalano la sua testa enorme e rotolano nel mondo.

Non sembra succedere molto altro, oltre a strilli e adorabilità. Eppure la sobrietà della scena è ingannevole, il che può dirsi per l’intero film. I neonati di qualsiasi specie tendono ad essere deliziosi, e i maialini – nella loro piccolezza e affascinante goffaggine – occupano naturalmente il centro della scena. Le loro dimensioni minute attraggono, e allo stesso tempo mettono ansia. Sono così piccoli, e la loro mamma è tanto, tanto grande. Kossakovsky non sta raccontando una storia ovvia, ma sta comunicando oceani di significato da un punto di vista cinematografico, e usa le immagini per creare associazioni a cascata, a partire dai maialini che emergono dalla porta oscura, un’eco visiva della nascita stessa.

Condividiamo una parte della vita di Gunda e dei suoi maialini, momenti di dramma silenzioso, giochi felici e tensione da mangiarsi le unghie. Kossakovsky ha girato il film per diversi mesi, quindi i maialini diventano sempre più grandi, anche se mai – e non a caso, come si scoprirà più avanti – molto grandi. Nelle scene dei maiali, e anche in quelle dei polli che razzolano, Kossakovsky tiene per lo più la telecamera alla loro altezza, piuttosto che osservarli dall’alto in basso. Mentre Gunda solca la terra con il muso, ti accorgi di quanto sia diverso il mondo, persino il terreno, dal punto di vista peculiare di questi esseri. Queste immagini sono la testimonianza che vedere, vedere davvero, attraverso gli occhi degli altri, a quattro zampe o meno, significa essere davvero umani.

Kossakovsky non esprime giudizi, ma ‘Gunda’ ci ricorda che la resistenza a mostrare animali nella maggior parte dei film riflette la realtà del fatto che non li guardiamo più, per prendere in prestito un pensiero del critico John Berger. Svela anche la nostra riluttanza a riconoscere l’abuso a cui sottoponiamo le altre creature e, per estensione, il mondo naturale. Ad esempio, è incredibilmente facile mangiare carne; nel mondo sviluppato, richiede poca riflessione, sforzo o denaro. È più difficile, e sicuramente più scomodo, pensare alla violenza insita nella sua produzione, ivi compresa la devastazione ambientale. Tagliati ormai fuori dal mondo naturale, classifichiamo gli animali in gran parte come animali domestici o carne.

Nel commovente e profetico saggio del 1977 ‘Perché guardiamo gli animali?’, Berger prende in considerazione i tragici costi della presunta marcia dell’umanità verso il progresso, e l’allontanamento dal mondo naturale. ‘Supporre che gli animali siano entrati per la prima volta nell’immaginario umano come carne o cuoio o corna significa proiettare un atteggiamento del XIX secolo all’indietro attraverso i millenni’, scrive Berger. ‘Gli animali sono entrati nella nostra immaginazione per la prima volta come messaggeri e promesse.’

Gli animali erano nostri compagni nelle caverne. Li abbiamo guardati negli occhi e loro hanno guardato noi. Col passare del tempo, abbiamo operato nei confronti degli animali – e della natura stessa – una rimozione enorme. Abbiamo smesso di guardarli. Tuttavia, come ci ricorda Kossakovsky anche se ci risparmia l’orrore del mattatoio, dobbiamo guardare gli animali negli occhi per affrontare con onestà quello che gli abbiamo fatto.

Creare la rivoluzione: intervista ad Aph Ko

Intervista originale qui. 

Per acquistare il libro Afro-ismo di Aph e Syl Ko e sostenere il lavoro di traduzione militante di feminoska, clicca qui.

La genesi di questa intervista è lunga e tortuosa. Comincia qualche anno fa, quando un’amica racconta a me e a mia moglie di questa straordinaria studente vegana che si chiama Syl. Qualche anno dopo, Syl è diventata una cara amica e sua sorella Aph pubblica un articolo sul perché i diritti animali sono una questione femminista.

Piccoli tunnel spazio temporali come questi si aprono continuamente nel cyberspazio, e scoprire dove conducano è non solo interessante ma anche importante per il proprio percorso. Da scrittore e mediattivista, sono affascinato e al tempo stesso turbato da quanto ha luogo nel mondo virtuale. Dopo aver letto l’articolo di Aph e aver visto la prima stagione della webserie Black Feminist Blogger, sono sceso nella tana del Bianconiglio.

Aph possiede il dono di una voce critica articolata e cristallina, e la sua prospettiva sull’interconnessione delle oppressioni e sui movimenti che la contrastano nell’ambito dell’attivismo è notevole per intelligenza e precisione. Le ho posto queste domande per conoscere meglio il suo lavoro e alcune delle conclusioni che ha tratto dal tempo che ha passato nella blogosfera.

Puoi parlarci di come sei diventata vegan? Quando è successo, e quali fattori hanno influenzato la tua decisione di smettere di prendere parte allo sfruttamento degli animali?

Sono diventata vegetariana a 16 o 17 anni, al liceo, dopo che alcuni amici mi hanno mostrato degli opuscoli della PETA (allora non sapevo ancora delle loro campagne sessiste!). Ho poi lavorato in un ristorante vegano a Irvine, in California, il Veggie Grill (era il primo in assoluto; ora è una catena di successo). Però allora non sentivo una particolare connessione ideologica con il veganismo, non lo prendevo sul serio. È stata mia sorella Syl a farmi comprendere il veganismo come concetto politico, quando avevo 20 anni. Mi regalò il libro Sistah Vegan e leggendolo compresi immediatamente il collegamento tra razzismo, sessismo e specismo e la cosa mi appassionò da subito (sono ancora ossessionata da A. Breeze Harper!)

Per un po’ è stato difficile per me essere coerente con la dieta vegana, nonostante avessi colto la questione politica che quest’ultima sottendeva, perché ero dipendente dai corpi animali come beni di consumo da tantissimo tempo. Mi resi conto che decostruire le narrazioni relative alle abitudini alimentari è difficilissimo, ma allo stesso tempo possibile e necessario.

La tua serie Black Feminist Blogger è il racconto esilarante e allo stesso tempo inquietante della realtà affrontata da una scrittrice femminista nera nella blogosfera. Sono curioso di sapere quello che pensi dello stato attuale della critica femminista nel cyberspazio e nella società in generale. Ad esempio, mi ha colpito il personaggio dell’editrice immaginaria, Marie, in particolare quando afferma “Ho eliminato le parole razzismo e supremazia bianca, sono troppo problematiche… in questa rivista vogliamo parlare dei problemi delle donne”. Pensi che sia possibile ottenere cambiamenti reali (in termini di rivoluzione culturale e di connessione delle lotte) sulle questioni femministe più importanti grazie al web? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi che derivano dal coinvolgimento nel mediattivismo?

Che bella domanda! Sì, penso che si stiano facendo progressi attraverso il mediattivismo. Quest’ultimo consente a molte persone appartenenti alle minoranze oppresse di accedere a piattaforme alle quali non avrebbero probabilmente accesso, se non fosse per Internet. E, cosa ancora più importante, ci consente di connetterci tra noi. Inoltre, proprio in rete ho imparato molto sui movimenti di giustizia sociale. Perciò da una parte direi che sì, il web ha portato sicuramente ad alcuni progressi, perché Internet offre uno spazio unico di organizzazione e costruzione del movimento. D’altra parte però non credo che Internet di per sé basti a portare avanti le questioni politiche. Black Feminist Blogger mostra come il blogging sia un business, mi sono basata su alcune delle mie esperienze reali di blogging full-time. Poiché alcune persone fanno soldi con i siti Web (il che non è sempre un male, soprattutto quando ti dedichi a questioni importanti e interessanti), si vive sotto la pressione costante a pubblicare velocemente e rigurgitare gli stessi argomenti popolari più e più volte per ottenere clic. È per questo che puoi leggere 300.000 articoli su Iggy Azalea e della cellulite che ha sul culo… e se la sua accettazione della cellulite sia o meno una posizione femminista… ma chi se ne frega!

In effetti, attraverso il lavoro di scrittura freelance vedi il lato commerciale del blogging. Ho scritto per siti femministi che assoldano un gran numero di scrittrici pagate ad articolo. In realtà, alcuni di questi siti di successo inviano ogni settimana via mail alle loro scrittrici freelance spunti di argomenti popolari tra cui scegliere. A volte, devi scegliere un argomento dal loro elenco perché sanno che otterranno un maggior numero di clic sulla pagina (e i clic si traducono in denaro). Per questo motivo, l’attenzione si focalizza sulla PRODUZIONE di articoli, non necessariamente sulla scrittura di testi dai contenuti innovativi e necessari. Ho anche lavorato per siti che arruolano in particolare scrittrici di altri paesi perché le pagano meno.

È la parte peggiore del mondo online. La corporativizzazione del femminismo online sta silenziando le voci femministe radicali e indipendenti, che non possono competere con loro o con siti che guadagnano migliaia di dollari (alcune scrittrici femministe hanno persino agenti!). Per questo alcuni siti femministi hanno il monopolio del pensiero femminista, e questo mi fa davvero rabbia. Alla fine sai già che quegli stessi spazi femministi affronteranno continuamente gli stessi argomenti popolari, non perché aggiungano qualcosa di inedito alla conversazione, ma perché DEVONO scriverne per essere di tendenza, e questo alla fine è mero giornalismo. Penso che Internet aiuti le persone a diventare imprenditor* e giornalist* capaci, ma non necessariamente attivist* migliori. Si confonde l’attivismo con la capacità di promuovere se stess* e la propria scrittura.

In quanto femminista nera, quali sono i problemi principali che vorresti ricevessero più attenzione di quanto accade al momento? Quali problemi hai dovuto affrontare per portare alla ribalta certe tematiche invece delle narrazioni costruite dai media mainstream?

In generale, credo che attualmente ci troviamo di fronte una gigantesca falla a livello teorico. La maggior parte delle discussioni che hanno luogo nei canali mainstream si appropriano delle questioni critiche e le distillano. Non è possibile parlare di donne e sessualità in modo inedito per colpa dello SGUARDO MASCHILE e della CULTURA DELLO STUPRO. Le donne di colore, sia quelle con la pelle chiara che con la pelle scura, non possono parlare insieme per colpa del COLORISMO. Vengono pubblicati di continuo articoli sulle donne famose che “celebrano” le proprie curve, o che non hanno paura di mostrarsi senza trucco, ed ecco che i discorsi sono diventati inconsistenti. Sono stufa di quanto la maggior parte dei discorsi siano ormai acritici e noiosi. Le discussioni nei canali mainstream sono sempre “sicure” e igienizzate. Abbiamo bisogno di una nuova cornice entro la quale inquadrare i problemi, perché attualmente questi discorsi non servono a niente e l’unico risultato sono queste narrazioni sciatte, poco interessanti e prevedibili che non hanno alcun effetto.

Prima di tutto dovremmo smetterla di concentrarci così tanto sulle persone famose. La nostra cultura ha una fissazione malata con quello che fanno le celebrità. Forse il femminismo è stato sgradevole e scomodo  per così tanto tempo che ora cerchiamo di riabilitarlo rendendolo gradevole, e per fare questo lo stiamo distillando, schiaffando l’etichetta di femminista su qualsiasi celebrità che denuncia l’uso di Photoshop. L’enorme attenzione data alle persone famose nel femminismo deriva dal fatto che il femminismo online si sta trasformando in giornalismo di bassa lega. A causa di questa svolta giornalistica del femminismo, sempre più femministe “riportano” avvenimenti culturali e a partire da ciò fanno le proprie analisi.

Come femminista nera, vorrei parlare di più dei diritti animali e di veganismo all’interno degli ambiti femministi senza che questi ultimi vengano considerati un argomento separato. I movimenti per la giustizia sociale sono tremendamente compartimentati, sebbene la parola più alla moda della nostra generazione sia “intersezionalità”. Mi piacerebbe anche che le femministe si concentrassero maggiormente sui media digitali indipendenti, la musica indipendente, l’arte, ecc. Adoro la sensazione genuina degli spazi indipendenti e penso che questi luoghi sgangherati abbiano molte potenzialità. L’atto di creare è rivoluzionario, quindi dovremmo iniziare a parlarne un po’ di più. In generale sono convinta che abbiamo bisogno di nuove teorie capaci di tracciare il mutato panorama politico, razziale e sessuale di oggi.

In un recente articolo per Everyday Feminism spieghi perché i diritti animali sono una questione femminista. Secondo te, perché è ancora necessario affrontare questo argomento negli ambiti femministi (cosa si nasconde dietro alla disconnessione tra femministe e altri animali)?

Attualmente molti movimenti per la giustizia sociale prosperano utilizzando parole d’ordine e mantra vuoti, piuttosto che attraverso l’azione autentica. Per questo motivo, è più in voga imparare la lingua del movimento in modo da “apparire” in grado di comprenderlo, piuttosto che agire nella pratica. Quando si comprendono davvero le motivazioni alla base della politica cambia il modo di vivere, non solo le frasi che portiamo scritte sulle magliette.

Alcune persone gridano #blacklivesmatter per via dell’omicidio di Mike Brown, ma non sanno il nome di un autore nero, un filosofo nero, un prodotto multimediale indipendente nero, un artista nero, ecc. È uno slogan vuoto. Ironia della sorte, ci sono femministe che gridano “il personale è politico” ma non si rendono conto che il cibo che consumano è il prodotto di un sistema di oppressione gigantesco.

L’intersezionalità oggi si rivela un fiasco in molti ambienti perché resta collegata a una prassi inesistente. L’incapacità di alcune femministe di lottare per i diritti animali dimostra quanto siano radicate in noi gerarchie oppressive e problematiche, anche nella psiche dei soggetti oppressi. Alcune persone oppresse hanno difficoltà ad ammettere di essere agenti oppressivi di altri soggetti. Sfortunatamente, capita sovente che i gruppi oppressi siano incapaci di comprendere di non essere gli unici corpi ad essere oppressi, e qualsiasi stimolo a rivolgere l’attenzione su altri oppressi viene immediatamente accolto con rabbia e frustrazione. Questa reazione è la dimostrazione della mia affermazione che le persone non capiscono davvero l’intersezionalità… o forse non ci hanno riflettuto sopra abbastanza.

Penso anche che per come è strutturato lo spazio online, in cui chiunque può aprire il proprio blog e scrivere quello che gli pare, tutt* si sentono espert* di femminismo. Molte persone criticano, poche sono inclini a imparare (anche io quando ho iniziato a bloggare ero una stronza testarda). Come ho affermato in un’intervista al Daily Beast, le persone amano criticare e sollevare problemi, ma non vogliono riflettere davvero sulle questioni perché questo potrebbe implicare un reale cambiamento, e poiché la nostra cultura prospera sulla “comodità”, “cambiamento” resta semplicemente la parola colorata su un poster di John Lennon appeso al muro, non la politica che costituisce il fondamento della tua vita.

Insieme al PERCHÉ, puoi parlare del COME? In che modo il femminismo può prendere più seriamente l’oppressione degli altri animali, creando una strategia globale e intersezionale per combattere l’oppressione?

Ironia della sorte, abbiamo già una teoria che sostiene i diritti animali e il veganismo, dobbiamo solo metterla in pratica. Tutte le femministe sanno cos’è “l’intersezionalità” ma devono essere in grado di applicarla a corpi il cui aspetto differisce dai propri. Si tratta solo di farlo. Sovente, nei movimenti di giustizia sociale, feticizziamo l’attivismo o pensiamo che si tratti di far cambiare le altre persone. Invece devi partire da te. Le femministe in generale hanno ormai ben chiaro che il corpo è un’entità politica, quindi non ci sono più  scuse.

Viviamo in una cultura in cui tutt* parlano di “body positivity”, ma le femministe sono disposte a parlare del proprio corpo fintantoché l’argomento trattato è una narrazione superficiale sul concetto di bellezza; quando invece si tratta di modificare la propria dieta per tenere conto dei corpi degli animali, sorgono mille problemi, saltano fuori frasi come “alcune persone non possono diventare vegane perché vivono in povertà o per motivi culturali”; e quando rispondo “Alcune persone non hanno la possibilità di diventare vegane… ma tu ce l’hai!”, scende il silenzio (per inciso, sono consapevole che non tutte le comunità hanno la possibilità di diventare vegan. Tuttavia, parlo principalmente delle migliaia di persone che possono diventare vegane, ma non lo fanno).

In seguito alla pubblicazione del mio articolo sui diritti animali su Everyday Feminism, tantissime femministe si sono incazzate con me e mi hanno inviato messaggi davvero cattivi, dicendomi che ero ridicola o che non ero una vera femminista perché le vite degli animali non sono importanti quanto quelle delle donne. Alcune erano così ostili che ho riletto il mio articolo più volte, per capire cosa avessi detto di così terribile. Non avevo idea che i diritti animali fossero un argomento tanto controverso nel contesto femminista. L’idea, mai messa in discussione, che i corpi animali “valgano meno” si basa sugli stessi sistemi gerarchici che le femministe combattono per ottenere i propri diritti. È la sintesi di quanto sia ironico tutto questo e, sebbene frustrante, un ottimo spunto per un’altra webserie! Questa risposta negativa rivela quanto siano maldestri e poco efficaci alcuni tentativi del femminismo di ottenere la “liberazione”.

Per essere un attivista devi AGIRE. È una lotta (anche con se stess*). Certo, rinunciare alla carne e al formaggio può sembrare la fine del mondo, ma quella sensazione di fatica personale è necessaria per il movimento. Tutt* sanno che gli animali vengono torturati e massacrati, ma molte persone non riescono a rinunciare alla carne perché “ha un buon sapore”; Quanto credi nella giustizia sociale se le tue papille gustative sono più importanti della vita di un altro essere?

L’attivismo non è comodo, e i movimenti per la giustizia sociale devono essere permeati da una maggiore empatia. Non ti senti ridicol* ad aspettarti che i gruppi dominanti comprendano la tua condizione oppressa, quando hai la carne di un altro essere incastrata tra i denti?!

Rivolgendo l’attenzione al veganismo e ai diritti degli animali, quali sono secondo te i fallimenti più evidenti del movimento nel tentativo di raggiungere individui non bianchi e non benestanti? Quali passi concreti devono essere fatti per rendere il veganismo più inclusivo, sia in termini di narrazione che di sensibilizzazione e sostegno?

La retorica dell’inclusività ci pone di fronte un problema fondamentale. Molte persone (me compresa) sostengono che la retorica della diversità e dell’inclusività serva a sostenere e rafforzare la supremazia bianca.

La tua domanda presuppone che non ci siano già persone di colore nel movimento e ci tengo a farti notare che, così posta, esclude le persone non bianche dal movimento a livello di narrazione. Di quale “movimento per i diritti animali” stai parlando? La tua domanda naturalizza la bianchezza come norma, ragion per cui la trovo problematica! Presumo che tu ti riferisca alle organizzazioni per i diritti animali prevalentemente costituite da bianchi, quelle la cui “bianchezza” è implicita, anche se raramente viene menzionata. Usando il termine ambiguo “movimento per i diritti animali” come se fosse incentrato sulla bianchezza, stai cancellando (e questo è ironico!) i non bianchi e il nostro attivismo, ma risponderò comunque alla domanda che penso tu volessi pormi.

Non mi sembra che il movimento bianco per i diritti animali bianchi abbia fallito nell’includere le persone non bianche perché ciò presupporrebbe che in primo luogo si prefiggesse di accoglierle, cosa che non ha fatto. Non vedo la mia esclusione dal movimento come accidentale. Possiamo prendere spunto dai modi in cui le femministe nere hanno focalizzato l’attenzione recentemente sul “femminismo bianco”, per tentare di risolvere questi problemi negli spazi tradizionalmente dedicati ai diritti animali, perché penso che si tratti di qualcosa di più di una questione retorica.

Per troppo tempo il “femminismo tradizionale” è sembrato focalizzarsi esclusivamente sulle donne bianche, ignorando completamente i modi in cui le donne di colore erano oppresse dal patriarcato in modo differente. Il femminismo in generale sembrava ignorare gli sforzi delle attiviste non bianche. Per questo, quando la femminista nera Mikki Kendall ha pubblicato l’hashtag #solidarityisforwhitewomen, ha sottolineato in maniera brillante i modi in i questi movimenti “tradizionali” riconoscono solo l’attivismo bianco, escludendo e ignorando le lotte e l’attivismo delle persone di colore. In altre parole, “mainstream” fa rima con “bianco”.

Brittney Cooper ha scritto un BRILLANTE articolo intitolato “Feminism’s Ugly Internal Clash: Why Its Future Isn’t Up to White Women” (“Il brutto scontro interno al femminismo: perché il futuro non dipende dalle donne bianche”) per tracciare chiaramente i confini esistenti tra femminismo bianco e nero, e sottolineare che le donne nere non hanno bisogno del femminismo bianco per considerare valido il proprio attivismo. In passato esisteva la percezione del femminismo “bianco”, ma in realtà non veniva mai esplicitamente chiamato in causa. A livello di narrazione, è stata una mossa significativa. Cooper ha osservato come il femminismo bianco (o femminismo tradizionale) sia incentrato sull’uguaglianza, e il femminismo nero sulla giustizia. Sono due progetti diversi e devono essere chiamati con nomi diversi, altrimenti tutto il lavoro svolto dalle femministe nere viene ingiustamente cancellato ed oscurato dagli sforzi organizzativi delle donne bianche.

Abbiamo bisogno di una simile strategia retorica all’interno dell’attuale movimento mainstream per i diritti animali, che è escludente verso le/gli attivist* non bianch*. Parte dell’attivismo considera l’attuale movimento per i diritti degli animali come un movimento bianco, e continua a dedicarsi al nostro attivismo senza lottare per un posto al tavolo bianco. Combattere per i diritti animali e lottare per sentirsi rappresentati in uno spazio bianco sono due progetti molto diversi.

Se persone appartenenti a categorie oppresse non si uniscono ai tuoi movimenti, forse fanno già parte di un movimento che non conosci, OPPURE il tuo spazio è escludente. L’attivismo non dovrebbe focalizzare la propria attenzione su come raggiungere le persone non bianche… dovrebbe usare quell’energia per fare autocritica del proprio movimento o progetto, perché le risposte potrebbero essere lì. Patologizziamo le persone appartenenti a minoranze oppresse, chiedendoci quali siano le loro motivazioni per non unirsi a movimenti e organizzazioni che in realtà le escludono intenzionalmente. Invece di sottolineare gli sforzi messi in campo da attivist* non bianch* (che sono molt*), l’attenzione è tutta rivolta al motivo per cui queste persone non si stiano unendo alle organizzazioni bianche.

Se i bianchi comprendessero profondamente le questioni per cui combattono così appassionatamente sarebbero già inclusivi, quindi sono escludenti in modo decisamente intenzionale. Solo perché il movimento per i diritti degli animali bianchi non ci riconosce, non significa che non esistiamo. È da un po’ che ci diamo da fare!

Molti vegani neri e non bianchi stanno realizzando progetti importanti, dobbiamo permettere a questi movimenti di base di prosperare così come sono. Le persone bianche possono aiutarci sostenendo economicamente e nelle necessità concrete i movimenti di attivist* vegan* appartenenti alle categorie oppresse che non hanno la stessa visibilità delle organizzazioni bianche, piuttosto che cercare di convincere queste persone a unirsi alle loro organizzazioni, un progetto completamente diverso di appropriazione culturale. Le persone vegan di colore che si danno da fare sono molte, e questo è il movimento per i diritti degli animali che io conosco e su cui mi concentro.

Grazie per aver volto al meglio la mia domanda formulata così maldestramente! A quali progetti lavorerai nel prossimo futuro, e quali questioni sono prioritarie per te?

Attualmente sto lavorando alla seconda stagione di Black Feminist Blogger e spero di poter filmare un altro episodio della mia webserie “Tales from the Kraka Tower”. Per me, in questo momento, la cura di sé è la cosa più importante. Per continuare a dedicarmi all’attivismo, devo ricaricarmi, ed è quello che sto facendo ora.

Continuerò a sostenere i media indipendenti e intelligenti e cercherò di finire un EP con la mia band!

Grazie mille per il tempo che ci hai dedicato!

Un posto a tavola: intervista a Syl Ko sul Veganismo Nero

Intervista originale qui.

Se vuoi sostenere il lavoro di traduzione di Afro-ismo in italiano, puoi acquistare il libro qui.

Il libro è disponibile anche in formato digitale sulle più note librerie online e sul sito di Vanda.

L’ingresso del mercato di Bonsecours si trova accoccolato su un angolo di acciottolato anonimo.

Guardandolo dall’esterno non l’avreste mai detto, ma all’interno di quelle mura la sala era animata da centinaia di persone giunte lì per il Montreal Vegan Festival. Una delle sedici relatrici ospiti, Syl Ko, coautrice insieme alla sorella Aph di Afro-ismo: Cultura pop, femminismo e veganismo nero (pubblicato il 27 maggio 2020 da Vanda edizioni), era lì per presentare uno dei suoi lavori, intitolato The Myth of the Animal Within.

Il libro affronta le implicazioni dell’invenzione coloniale dell'”animale”, categoria che è stata imposta sia agli esseri umani che agli animali, e la conseguente oppressione che coinvolge principalmente le minoranze umane e gli animali non umani. L’animalità è diventata l’arma razzializzata della supremazia bianca. Equiparare neri ed animali, mediante l’uso del linguaggio coloniale, ha consentito la loro disumanizzazione, e proprio come gli animali sono stati cacciati a forza nello spazio “subumano” dal patriarcato suprematista bianco, i popoli razzializzati hanno subito lo stesso destino. Per questo dobbiamo rivendicare l’animalità, e tenerla in considerazione nelle nostre analisi dell’oppressione. Syl riassume perfettamente questi concetti nel quarto capitolo del libro quando afferma: “Uno dei modi più semplici di fare violenza a una persona o a un gruppo di persone, è quello di paragonarle o ridurle ad ‘animali’. In una società in cui ‘umano’ è diventato sinonimo di bianchezza, chiunque non rientri nella cornice eurocentrica viene automaticamente animalizzato”.

Una breve introduzione al Veganismo Nero

Il veganismo nero differisce dal veganismo bianco tradizionale (il veganismo “solo per gli animali”), ma ciò non significa che un modo di affrontare l’argomento sia più corretto dell’altro. Affermare che esista un modo “giusto” di essere vegan implica privilegiare un particolare punto di vista rispetto a un altro, motivo per cui molte persone nere hanno difficoltà a sottoscrivere il veganismo tradizionale. Spesso chi si trova in posizioni di potere dimentica che non tutte le persone hanno lo stesso accesso alle risorse a loro disposizione. Quindi, se le persone che vivono nei cosiddetti deserti alimentari (di solito persone di colore) vengono rimproverate e marginalizzate per non aver adottato lo stile di vita vegano, si allontanano da un movimento che non tiene conto delle loro esperienze di vita reali. Sono persone che semplicemente non hanno le stesse possibilità di accesso ai generi alimentari; invece di trattarle con disgusto e disprezzo, la maggioranza vegana deve trovare modi per migliorare l’accessibilità all’interno di queste comunità. Inoltre, dal momento che i neri lottano letteralmente ogni giorno per i propri diritti, diventa difficile per loro – giustamente – porre i bisogni altrui di fronte ai propri.

Il tokenismo (pratica che consiste nel fare un gesto esclusivamente simbolico di inclusione di membri di gruppi minoritari per creare un’apparenza di inclusività e depotenziare le accuse di discriminazione) nella comunità vegana mainstream contribuisce alla mancanza di persone di colore nel movimento. Troppo spesso le voci nere vengono soffocate o sfruttate per soddisfare un’ideale di inclusività; spesso i bianchi hanno troppo spazio in questi movimenti, e non permettono ad altre persone di avere la propria voce. Raramente ai vegan di colore viene dato spazio nelle conferenze o sui più popolari blog vegani. Sono troppe le occasioni in cui ho visto gruppi vegani twittare frasi come: “Le vite nere contano più delle vite dei polli o delle mucche… a quanto pare”. Confrontare l’oppressione dei neri e la schiavitù con il trattamento e l’oppressione degli animali non è soltanto estremamente insensibile, razzista e disumanizzante nei confronti dei neri, ma crea anche un’atmosfera di sfiducia nei confronti della genuinità della lotta contro l’oppressione. Questi sono alcuni dei motivi per cui il veganismo tradizionale diventa inaccessibile alle persone di colore e in particolare ai neri, incoraggiando così la creazione del movimento del Veganismo Nero.

Intervista a Syl Ko

Dopo aver pronunciato il proprio discorso sull’animalità in maniera calma e con parole illuminanti, Syl ha gentilmente accettato di sedersi e chiacchierare con noi. Nonostante l’argomento della conversazione non fosse dei più leggeri, l’atmosfera era lieve e invitante in quanto Syl, Andreann e io (Gemma), tre donne nere, ci confrontavamo e discutevamo senza filtri di situazioni ed esperienze che tutte e tre avevamo ben presenti.

Andreann Asibey (AA): Quando e perché sei diventata vegana?

Syl Ko (SK): Oh, wow… nessuno me lo ha chiesto. Sono diventata vegana circa sette anni fa. Ero vegetariana da molto tempo e non sapevo nemmeno cosa fosse il veganismo. Pensavo che la parola vegan fosse una roba da musica punk bianca. Non sapevo davvero cosa fosse, ma non appena ho cominciato a capirlo, ho pensato “Sono io!” Dirti perché, invece… è una domanda difficile. Non avevo davvero un motivo specifico. Immagino che il meglio che posso dire sia che sono diventata vegana perché non voglio essere il tipo di persona che non batte ciglio di fronte a quello che accade quotidianamente agli animali: a parte questo non ho alcun altro motivo.

AA: Quindi sei cresciuta in una famiglia vegetariana?

SK: No, anche se mio padre era molto sensibile nei confronti degli animali, ad esempio avevamo le galline. Era originario della Polonia e lì aveva una fattoria in cui mangiavano solo i propri animali. Voleva ricreare quella realtà qui, perché eravamo poveri ed era più facile fare così. E così ha ammazzato con un pollo, ma poi siamo diventati tutti tristi, quindi ha deciso che avremmo tenuto il resto delle galline come animali da compagnia: mio padre era così. Ricordo che una volta pensava di sparare a un falco o qualcosa del genere. C’era un animale che stava attaccando le nostre galline e voleva proteggerle, e accidentalmente sparò a un gufo. Abbiamo fatto un funerale per il gufo e ricordo che mio padre pianse per una settimana. Mio padre ha influenzato tantissimo la mia sensibilità morale nei confronti degli animali. E anche quando avevo circa sei o sette anni, quando ho scoperto per la prima volta che l’osso, in quanto osso… di pollo, era un osso all’interno del corpo di un animale, ricordo di aver passato una notte intera così arrabbiata con me stessa per non aver mai fatto la connessione. Poi ho iniziato a nascondere la carne dei nostri pasti nelle scarpe, e la buttavo nel gabinetto. E i miei genitori – perché eravamo davvero poveri – si chiedevano “Ma che cavolo butti il cibo in bagno!”. Pensavo che avrebbero fatto mille storie e invece mio padre mi ha dato un libro di Plutarco, un antico filosofo, e di Porfirio: era il suo strano modo di dire “ci sono persone che la pensano come te”. L’ossessione che ho da tutta la vita è cercare di capire quali sono i nostri obblighi nei confronti degli animali.

AA: È stato facile integrarti nella comunità vegana della tua università o ti sei trovata di fronte  degli ostacoli in quanto donna di colore?

SK: Le persone erano fantastiche, ma non ho mai sentito di far parte del movimento vegano. Anche adesso non mi considero parte del movimento vegano. Ci consideriamo in realtà pensatrici e attiviste antirazziste, e siamo convinte che antirazzismo significhi anche pensare agli animali non umani. Davvero, non mi sono mai sentita troppo coinvolta. Voglio dire, andavo ai cortei e cose del genere, ma ho sempre avuto la sensazione che forse mi volevano lì per avere la quota nera. Se sei una persona nera in uno spazio bianco è una cosa che ti affligge costantemente. Tipo: “Aspetta, lo fanno solo perché sono nera”, e già questa di per sé è una sensazione così disumanizzante che continui a metterti in discussione. Come se fossi qui solo come rappresentante di una razza o qualcosa del genere… Quindi per lo più non mi sono fatta coinvolgere, ma ho avuto la fortuna di frequentare il dipartimento di filosofia, nel quale molte persone sono vegane. In quell’ambito non andavamo ai cortei, in realtà ci confrontavamo sulle idee che avevano a che fare con gli animali. Per me è stato molto più divertente che uscire a distruggere tutto o dar fastidio alle persone nei Chipotle (nota catena di ristoranti messicani negli U.S.A., N.d.T.) e cose così. Alcuni di questi metodi non li capisco, nel senso che hanno per me poco a che fare con la liberazione degli animali. Quindi sì, ero decisamente poco coinvolta nel movimento vegano, ma mi sono sentita sempre molto coinvolta a livello intellettuale, per lo più parlando con le altre persone. Soprattutto perché non condivido un aspetto che noto in molti altri attivisti, che hanno questa visione granitica per cui “le cose devono andare così” e ”il modo di pensare agli animali è questo – e se la pensi diversamente, sei una persona orribile e non ti importa degli animali.” Non mi sento a mio agio a guardare qualcuno in faccia e dire: “No, devi fare così e così, ti dico io come devi pensare alle cose” perché io non lo so, davvero. E penso che in realtà sia una conseguenza dell’essere bianco questo atteggiamento del “Ne so più di te e ho le risposte”: io non ho le risposte, non conosco nemmeno le domande.

AA: Perché pensi che la comunità nera sia così lontana dal veganismo?

SK: Penso che il veganismo mainstream abbia un’esperienza molto diversa delle parole umano e animale. Se non sei animalizzato o non vivi in una posizione emarginata, umano e animale sono concetti molto semplici. Invece quando ti hanno già chiamato “animale”, o qualcuno un giorno ti ha detto che non sei davvero umano, che sei una scimmia o cose simili, hai vissuto sulla tua pelle questa idea coloniale dell’animale. La senti dentro di te. Quindi non dici di ‘vivere la stessa oppressione’ o di ‘avere la medesima esperienza’, ma semplicemente: “Oh cavolo, siamo tutti oppressi dallo stesso progetto [coloniale] che ci influenza in modo molto diverso”.

AA: Hai lavorato con tua sorella sul libro Afro-ismo, cultura pop, femminismo e veganismo nero. Com’è stato lavorare con tua sorella? È il primo progetto importante su cui avete lavorato insieme?

SK: Aph e io siamo migliori amiche. Negli ultimi dieci anni ci siamo sentite al telefono, via Skype e mail, confrontandoci costantemente su articoli, libri, film. La nostra amicizia si è cementata nel nostro interesse per il femminismo, il razzismo e tutto ciò che riguarda gli animali. Afro-ismo è stato prima di tutto un blog, non abbiamo scritto il libro di proposito… erano cose di cui parlavamo da un decennio, quindi questo libro è una sorta di riassunto. Lo consideriamo un diario intellettuale tra di noi; parlavamo già di queste cose prima di decidere di scriverle su un blog. Non ci aspettavamo che qualcuno se ne interessasse, ma quando è successo abbiamo deciso di trasformarlo in un libro. Lei è davvero brillante. Ho imparato di più parlando con lei che in un corso di dottorato.

AA: Come è nata l’idea? Qual era lo scopo?

SK: Ci siamo accorte dell’assenza di questa narrazione fondamentale non solo nel movimento vegan ma anche nell’antirazzismo. Voglio dire, quando prendi in considerazioni le organizzazioni nere. Abbiamo iniziato a confrontarci su Black Lives Matter chiedendoci perché ci fosse questa ossessione di parlare di razza come se riguardasse il colore della pelle, mentre non si parla mai di cosa sia veramente il razzismo, ovvero un progetto per mettere le persone le une contro le altre. Come si può parlare di razzismo o eliminare il razzismo senza parlare del dualismo umano-animale, che è il costrutto sociale che mantiene vivo il pensiero razzista? Come si fa a non accorgersi che umano e animale sono termini razzializzati? È a questo punto che abbiamo capito che gli argomenti che affrontiamo sono davvero importanti. Il libro è nato perché la risposta [al blog] è stata travolgente. A quel punto abbiamo deciso di scrivere il libro, perché tante persone volevano un libro. Non puoi elaborare un’idea come questa, che prende letteralmente in considerazione tutta la tua esperienza di persona razzializzata, non puoi comprenderne la forza dirompente leggendo dei post su un blog. Devi averlo con te di notte, devi leggerlo, rileggerlo e rifletterci su. I libri aiutano a rallentare, e a prestare attenzione. Vogliamo che le persone prestino attenzione a queste idee. Non solo per gli animali, ma perché ci teniamo davvero a liberarci dallo schifo con cui abbiamo a che fare.

AA: Puoi dirci qualcosa in più sulla tua ricerca attuale?

SK: Il modo più semplice di descriverla è che sto cercando il modo di rendere applicabile il veganismo nero, e per farlo sto affrontando altre questioni riguardanti l’oppressione degli animali. Il Veganismo Nero è una bella mossa teorica, ma ci sono molte questioni diverse a cui sono interessata. Uno degli argomenti che più mi interessa è il problema del parlare per gli animali. Molti dei gruppi oppressi parlano per sé stessi perché parlano il linguaggio di cui si ha bisogno per essere politicamente coinvolti nella società umana, e gli animali ovviamente non possono farlo. Certamente possono comunicare con noi, ma non parlano un linguaggio politico, e da questa evidenza scaturisce la domanda: è giusto parlare per gli animali? Chi parla per gli animali? E così via. Il veganismo nero fornisce gli strumenti per evitare questo problema del tutto perché non parla per conto degli animali, parla di animalità. Poi sto lavorando all’articolo di cui parlavo oggi, che riguarda le ipotesi che facciamo sul legame che dovremmo sentire con gli animali. Questo articolo ha a che fare con l’animale interiore, e utilizza il veganismo nero come modo per far emergere il modo in cui, nel momento stesso in cui parliamo di animali, non cogliamo il punto. Fondamentalmente uso il veganismo nero e lo applico alle questioni esistenti. Penso che possa rispondere a domande anche banali, per poi passare ad altro.

AA: Nella tua presentazione hai fornito tre concetti diversi in relazione alla parola “animale”. “Tutti gli umani sono animali”, “Nessun umano è animale” e “Alcuni esseri umani sono animali” – puoi spiegarci quest’ultimo?

SK: Metto insieme queste frasi, in modo che appaia ovvio come [la parola] “animale” viene usata  in modo diverso a seconda del contesto.  La stessa parola esprime diversi significati. Un esempio curioso è la parola inglese “can”. “Can” può significare capacità, può identificare una lattina e può anche essere il termine gergale per prigione. La stessa parola significa cose diverse. Con “animale” è più difficile da capire, perché la definizione e i concetti che definisce sono molto sopravvalutati. L’ho fatto apposta in modo che si veda chiaramente, senza ombra di dubbio, che esistono almeno tre significati diversi, altrimenti sarebbe semplicemente “Tutti gli umani sono animali”. Cercavo di dimostrare che [nell’ambito antispecista] ne parliamo in un modo solo, il primo, come se fossimo tutti animali. Invece la parola “animali” può essere usata per riferirsi ad esseri che non sono membri della specie Homo sapiens, o in modo “sociale”, ovvero non riferendosi all’appartenenza biologica, ma indicando qualcosa del tuo status. Il modo in cui Trump si è espresso sui Latinxs (l’appello alla polizia di liberare il paese dagli “animali” che danneggiano la comunità), non era da biologo, stava dicendo qualcosa di sociale su di loro. Se parliamo di esseri umani è facile capire cosa intendo, ma se affermo che “gli animali sono animalizzati” si crea una certa confusione. In verità sto dicendo la stessa cosa, ovvero che il modo in cui applichiamo tale categoria sociale ad alcuni umani per opprimerli, è lo stesso che utilizziamo per opprimere gli animali non umani. L’unica fonte di confusione è l’uso completamente diverso che si fa della parola “animali”.

AA: Come si può rendere meno pervasiva la narrazione bianca all’interno del movimento vegano? Chi ha la responsabilità di ridimensionare quella narrazione?

SK: Penso che sia nostra! Questa preoccupazione per ciò che i bianchi fanno e per i loro errori mi lascia sempre perplessa. Aph e io siamo infastidite dalla tendenza alla “Dear White People”; sprechiamo così tante energie per sottolineare dove i bianchi stanno sbagliando, ed è come se tutto riguardasse loro.  Lasciamo che si mettano nei nostri panni, mentre potremmo fare le cose da noi. Cerchiamo di sbarazzarci di questa narrazione coloniale secondo cui dobbiamo aspettare che i bianchi arrivino a proporre teorie al nostro posto o che i bianchi capiscano che possiamo unirci al movimento. Possiamo semplicemente fare le nostre cose, e non perché ci odiamo a vicenda o perché loro le stiano facendo male. Quello che intendo è che ci sono molti modi diversi di affrontare un problema e dovremmo poter avere la libertà di farlo da soli.

AA: In che modo il veganismo nero sfida la supremazia bianca?

SK: Il veganismo nero è una strategia antirazzista. Ecco cos’è. Se vuoi smantellare il razzismo, devi andare alla radice del razzismo, e la radice del razzismo è questa distinzione ‘sociale’ tra uomo e animale. Quindi, se vogliamo distruggere il razzismo, non possiamo farlo mantenendo lo status quo. Il veganismo nero sfida la supremazia bianca, ed è una delle poche proposte vegane esistenti che smaschera per davvero la supremazia bianca. La supremazia bianca non discrimina semplicemente le persone in base al colore della pelle. La supremazia bianca è radicata in un progetto peculiare per cui solo alcuni esseri umani sono “persone”, e tutti gli altri esseri viventi non valgono nulla, ed esistono per servire le “persone”. Il  veganismo nero si oppone in modo deciso  alla supremazia bianca perché fa qualcosa di radicale, supera le categorie razziali e va alla vera fonte del problema. Ovvero che alcune persone hanno deciso di identificarsi come “i veri esseri umani”, serviti da tutti gli altri.

AA: Un’ultima domanda: qual è il tuo posto vegano preferito?

SK: Ahh, oh wow. . . Probabilmente Veggie Grill in California. È una catena… un ottimo fast food vegano. Ho fatto uno stage a Cali solo per poter mangiare Veggie Grill per due mesi!

Il veganismo nero per le autrici dell’intervista

Vogliamo ringraziare in maniera speciale Syl Ko per il tempo che ci ha dedicato, e per aver chiacchierato in modo così aperto e onesto sul Veganismo Nero e su come significhi molto più che essere semplicemente nere e vegane. Vogliamo ringraziare Syl e Aph per aver messo per iscritto pensieri e i sentimenti che le persone marginalizzate hanno avuto per anni ma non avevano le parole per esprimere.

Per me (Gemma), nera e vegana, la proposta del veganismo nero è inedita e illuminante. Ho seguito a lungo il veganismo mainstream e concentrato il mio attivismo esclusivamente sugli animali. Parlando con Syl e leggendo Afro-ismo, ho potuto utilizzare le mie esperienze di donna nera per modellare e rivedere la mia comprensione e il mio approccio all’animalismo. L’animalizzazione e la disumanizzazione hanno un ruolo importante nella giustificazione della violenza perpetrata contro i corpi neri e vengono abitualmente ignorate dal veganismo bianco mainstream. Il veganismo focalizzato esclusivamente sugli animali non basta, se le persone non si preoccupano dell’applicazione dell’animalizzazione ai gruppi emarginati. Essere nera ha plasmato la mia prospettiva in ogni aspetto della mia vita, quindi perché non dovrebbe anche modellare il mio approccio al veganismo?

Per quanto mi riguarda (Andreann), sono una persona non vegana che sta pensando di diventarlo. Sono molto incuriosita dalle proposte del veganismo nero perché tiene conto delle mie esperienze con la supremazia bianca. Ho sempre pensato tra me e me: “Come posso fare la mia parte per un movimento che afferma di prendersi cura degli animali ma che mostra platealmente di non avere nessuna cura o amore per me?” Come persona che conosce molti casi in cui i vegani bianchi e non bianchi (ma non neri) minimizzano, ignorano e negano in maniera palese la difficile situazione delle vite nere, sostenendo al contempo “l’uguaglianza di tutte le forme di vita”, il veganismo nero fornisce un approccio veramente intersezionale al movimento. Un’affermazione di Heather Barrett nell’ articolo intitolato “White veganism doesn’t care about Black lives”, sintetizza i miei pensieri sul veganismo tradizionale: “I vegani bianchi spesso sostengono l’importanza della vita degli animali, ma le loro voci restano mute quando si parla delle vite di altri umani che non hanno il loro stesso colore della pelle”. Il veganismo nero crea uno spazio sicuro per una categoria di persone costantemente spinta ai margini della società, consentendo loro di essere per una volta al centro dell’attenzione.

Afro-ismo, attraverso l’esplorazione coraggiosa del dualismo uomo-animale e del posto che questo dualismo occupa nella retorica razzista e nella supremazia bianca, è stato fondamentale nello sviluppo della nostra comprensione dell’attivismo antirazzista e dei diritti degli animali.

C’è un problema nel tuo piatto

Articolo originale qui. Ringrazio Lafra e Grazia per la revisione.

 

FEMMINISMI | Cosa mangiamo? Come mangiamo? Quanto del cibo che consideriamo “naturale” implica crudeltà? L’antispecismo – che non considera gli animali esseri inferiori, ma soltanto “non umani” – interpella i femminismi da un punto di vista etico, e apre un dibattito di cui si sente parlare sempre più frequentemente.

“Smisi di mangiare carne in carcere non come gesto politico, ma perché quella che ci davano era andata a male; tuttavia credo che la politica alimentare sia una questione importante”, è quanto ha affermato Angela Davis in Spagna appena sette mesi fa, nel corso dell’incontro Mujeres contra la Impunidad. “La questione del cibo è la prossima questione su cui il femminismo deve lavorare”. Nello stesso periodo, in Argentina, il diritto all’aborto veniva negato dall’avanzata dell’ala ultraconservatrice del Senato, e un altro disegno di legge che consentiva l’accesso alla dieta vegana senza interventi da parte delle istituzioni, veniva rigettato dalla Camera dei Deputati, in una convergenza di opposizioni alle rivendicazioni femministe e ad  altre forme di sussistenza sane e antispeciste. Solo dieci giorni fa, attivistu per i diritti degli animali si sono nuovamente mobilitatu contro il Congresso per chiedere l’approvazione di progetti di legge che li riconoscano come esseri senzienti e soggetti di diritto.
“Madri schiave. Partoriscono senza sosta. Numeri.Cose. Latte. Capre bianche. Mare di animali. Formaggi che vengono portati alla bocca. Ignoranza. Cecità. Come se fossero nostre. Capre bianche. Madri. Prigioniere”. Sulle pagine di Voicot, una delle organizzazioni che hanno partecipato alla giornata di protesta del 29 aprile, il testo accompagna l’immagine di centinaia di capre schiacciate l’una sull’altra, in un quadro di estinzione. La consapevolezza delle condizioni della produzione alimentare come futuro spazio di lotta di cui parla Davis è una sfida centrale per le organizzazioni femministe, antispeciste e anticoloniali. La prospettiva è rivoluzionaria, perché sfida tutti i modi di produzione industriali capitalistici, ma anche perché interpella le relazioni affettive e di cura di se che i femminismi stessi propongono, nei confronti di esseri non umani.
“La rivoluzione femminista sarà antispecista o non sarà”, uno degli slogan più importanti del World Veganism Day del 1 ° novembre, è allo stesso tempo monito e promessa di un altro mondo possibile. “Sono i loro figli, non i nostri. Sono le loro uova, non le nostre. Non è cibo, è violenza.” Allo stesso modo, la filosofa catalana e attivista femminista vegana Catia Faria, sottolinea che “il sessismo e lo specismo sono forme di discriminazione ugualmente ingiustificabili, ed entrambe si manifestano con simili schemi oppressivi di gerarchia e dominio”. Da Barcellona, Audrey Garcia (che fa parte di Feministas por la Liberación Animal) sottolinea l’urgenza di affermare che le donne, i corpi femminilizzati e gli animali non sono oggetti di consumo patriarcale. “Non possiamo concepire una lotta sociale che mira a distruggere la discriminazione discriminando altre esistenze. E’ impossibile. Come femministe dobbiamo essere antispeciste. “
Nel mentre Liliana Felipe – a Buenos Aires per partecipare alla discussione “Femminismi, Antispecismo e Diritti Umani” insieme a Violeta Alegre e Malena Blanco nello spazio MU – denuncia un capitalismo basato sullo sfruttamento degli animali. “Di questi tempi compongo canzoni per celebrare e ringraziare gli animali non umani che ci hanno sostenuto in tutti questi millenni sulla terra. Penso che sia ora di lasciarli andare, liberi e felici, e di ripensare al nostro modo di vivere. Gli umani sono come la gonorrea per il pianeta… una vecchia e scomoda malattia.

 

La genealogia in cui si inserisce Felipe passa dall’ecofemminismo di Françoise d’Eaubonne degli anni settanta, alla politica sessuale della carne di Carol Adams degli anni Novanta, all’interconnessione di femminismo e antispecismo, in un parallelismo tra animali usati per il cibo e donne usate come oggetti sessuali. Dalla “cerda punk”, Saggi di una femminista grassa, lesbica, anticapitalista e antispecista, di constanzx alvarez castile, (in minuscolo per richiesta esplicita) che afferma che “in quanto donne grasse siamo abituate ad essere paragonate agli animali, come se quella dell’animale fosse una categoria negativa”, alla lotta di Annie Sprinkle per un’ecosessualità in cui convivono drag queen, sex worker e artiste. Una spirale all’infinito. Antispecismo o patriarcato, corpi o mercificazione, neoliberismo o sovranità alimentare e “donne, trans, lelle, vacche, cagne, fattrici e qualsiasi essere senziente”, come spesso afferma Nina Martí, dell’organizzazione femminista antispecista Unión Vegana Argentina (UVA). Altolà. L’attrice Bimbo Godoy, vegana, aggiunge altre suggestioni al contesto, con i fili invisibili che – dice – dovrebbero bordare tutte le vite.
“Non si tratta solo di parlare di veganismo, ma di un’empatia etica che unu espande nel tentativo di sottrarsi alla complicità di chi fa parte, senza aver potuto scegliere, di questo sistema capitalista, eteropatriarcale e specista, che implica violenza e crudeltà. Come il machismo e il patriarcato, è una struttura solidamente radicata nella cultura e nei costumi. “
Significa mettere a nudo l’oppressione.

 

– Concepirla come una sola, che si manifesta in modi diversi. Di fronte allo stesso “gene” che considera inferiore le femminilità, che considerava inferiori le/i neri e le altre specie non umane o senza diritti, la nostra umanità ci dà la possibilità di scegliere. Il femminismo ci connette con un livello di empatia e di riconoscimento dei privilegi e delle responsabilità che abbiamo a seconda delle nostre appartenenze. Ci permette di scalfire la superficie di tutto ciò che conosciamo e accettiamo, e da lì arrivare anche al veganismo. Di considerare l’urgenza di questa e di altre questioni. Non si può far nulla senza un luogo in cui farlo, e questo luogo è la terra, che è completamente devastata dai nostri consumi.
Il veganismo segue princìpi femministi?
–        Più che “princìpi” – parola che indica idee moralistiche su come essere una brava femminista – il veganismo e l’etica animale non hanno a che fare con la bontà o l’essere migliore di altre femministe, ma con il mettersi all’opera di fronte a questioni urgenti. È uno stile di vita che ti costringe a porre in discussione tutto, compreso ciò che mangiamo, una volta che hai compreso che tutto è politico e che siamo costruttrici e costruttori di realtà. La furia creativa è molto diversa dalla violenza che distrugge, che è la stessa che ci uccide, ci precarizza e ci violenta in mille modi. La stessa che considera gli animali cibo. Quindi, quando diciamo “basta alla violenza”, dobbiamo guardare nel nostro piatto, perché solitamente è un luogo pieno di violenza.

Perché essere antispecista è così emozionalmente estenuante

Immagina di essere un antirazzista in un mondo dominato dalla supremazia bianca, una femminista in un mondo di MRA, un omosessuale in un mondo di omofobi. Ovvero di vivere in una società che non soltanto collude, più o meno consapevolmente, con un sistema di potere che si impossessa dei corpi rendendoli merci, ma che addirittura se ne fa vanto, ergendo la propria iniquità a motivo di orgoglio. Immagina di voler bene a persone quasi sempre meravigliose, tranne quando picchiano un non bianco, una donna, un disabile. E lo fanno con il benestare della società tutta, che lo inscrive nell’ordine naturale delle cose. Immagina di viaggiare, e mentre il tuo compagno di viaggio ammira le vigne e le dolci colline digradanti nella vallata, tu vedi solo grigi capannoni senza finestre dove migliaia di vite languiscono e muoiono. O camion pieni di occhi terrorizzati, che quando incroci quegli sguardi capisci l’orrore.

In fondo pensi che non è difficile arrivarci, non serve una laurea in metafisica del potere per capire che non c’è nulla di naturale in questo, anzi: non siamo indiani d’America che ergono totem dalle sembianze animali e ringraziano gli animali uccisi, o inuit in perenne simbiosi dalla nascita alla morte con le renne… ma siamo proprio l’opposto, primati drogati e schiavi del potere, che nel corso dei secoli null’altro hanno fatto se non tracciare solchi sempre più profondi dall’altro da sé: a partire proprio dall’animale, concetto creato ad arte che rappresenta il paradigma stesso dell’oppressione, la vita reificata e trasformata in risorsa a perenne disposizione. E blateriamo della nostra eccezionalità, quando l’unica specialità che abbiamo coltivato con cura è approfittare dell’altrui debolezza e vulnerabilità, per il nostro tornaconto.

Ogni giorno vengono confezionate ad arte guerre tra pover*, guerre tra oppress*, tanto utili a camuffare l’origine delle ingiustizie. E nel vile tranello ci cadiamo tutt*, anche chi è vittima o chi è solidale nel lottare contro l’oppressione, e cominciano le olimpiadi: ogni esistenza indegna si posiziona ai blocchi di partenza, chi vincerà? La donna maltrattata, il migrante incarcerato, il disabile invisibilizzato, l’omosessuale bruciato vivo, l’animale sgozzato, ecc.ecc.ecc.? Sugli spalti, i soliti noti si godono lo spettacolo, intoccabili e compiaciuti.

Ma quando cerchi la solidarietà tra oppress*, raramente riesci a scardinare quella stessa dinamica che ti ha piazzato a correre a perdifiato su quella pista che è la tua vita di merda, o la vita di merda che ad altr* è stata destinata…perché in fondo, simpatie ed empatie a parte, pare proprio che alla maggior parte di noi ciò che sta più a cuore sia salire sul podio e trovare la via di uscita dalla propria oppressione: e se è difficile, ma non impossibile, concepire un’alleanza tra “umani” ecco che questa stessa alleanza si basa, quasi sempre, sulla comune distanza dall’animale. Distanza ideologica e miope, poiché quando diventiamo spendibili, siamo già, nei fatti, animalizzati: e dunque fintantoché esisterà l’Animale come vivente appropriabile, nessun* sarà realmente al sicuro nel proprio corpo e nella propria vita.

Eppure, per quanto si tenti, quantomeno nelle intenzioni e nei proclami, di creare alleanze tra differenti soggettività oppresse, è quasi impossibile includere l’animale nel conteggio delle vittime, quasi che fosse impensabile, per l’umano, vivere senza dominare, senza opprimere.

Essere antispecista è emotivamente estenuante perché, spesso, proprio le persone che ami, anche quelle che lottano al tuo fianco, sono le stesse che non capiscono che invitarti ad una grigliata “tanto ci sono le verdure” non è una cosa bella. Tu rifletti, giustifichi, razionalizzi, ti dici che è normale, la società tutta è specista, ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma che pazienza si può avere di fronte alla puzza di carne bruciata?

Allora ti viene naturale cercare conforto in chi è più simile a te, ma poi scopri che forse anche questa volta ti eri sbagliata: perché mentre la maggior parte del movimento scrutina minuziosamente le etichette a caccia dello 0,1% di lana o di tracce di uova e latte, là fuori le vite massacrate raggiungono cifre a 10 zeri: e allora ti chiedi se davvero ne valga la pena, se davvero abbia senso tutto questo dolore e questa impotenza, se in fondo non sarebbe più facile chiudere la porta di casa, rifugiarsi nelle piccole cose, illudersi che vada tutto bene, perché se ne ha la possibilità e raramente si comprende l’enormità di questo privilegio, il privilegio dell’indifferenza.

Ma come puoi dimenticare quegli occhi una volta che li hai incrociati? E non solo quelli disperati, ma anche quelli felici che per un caso fortuito hanno riassaporato la libertà. Le emozioni che ti trasmettono le conosci bene, perché sei un essere sensibile tra esseri sensibili, e sai che non esiste nulla di più prezioso della libertà, della possibilità di autodeterminare, nei limiti posti da un’esistenza finita, la propria vita. E sai che gli altri animali la cercano incessantemente, quanto te, ed è quello di cui hanno bisogno. Non di protettori, di rifugi, di custodi, ma di libertà: solo nella libertà esiste l’incontro, l’elezione, l’affinità. Nella libertà di essere e di esistere, il privilegio più importante e rischioso di tutti.

Anche se la violenza è parte ineludibile di questo mondo, così come la sofferenza e la morte, non lo è il dominio. Il dominio è un’invenzione umana, il dominio è l’annichilimento della vita, il dominio è l’inferno sulla terra. Noi vogliamo rendere visibili i meccanismi del dominio, vogliamo sfilarci da essi il più possibile, anche quando non li agiamo direttamente ma ne siamo in ogni caso collusi. Per questo non possiamo gioire alle grigliate, e non siamo capaci di sorridere mentre coi denti staccate brandelli di muscoli dalle ossa: e finché la carne del mondo non smetterà di bruciare sugli altari del potere, non avremo altro destino che continuare a lottare.

Free Ink 2018 – Basta usare gli animali come metafore della miseria umana!

Vincent: Vuoi un po’ di pancetta?
Jules: No grazie, io non mangio maiale.
Vincent: Perché? Sei ebreo?
Jules: No, non sono ebreo, non mi va la carne suina, tutto qui.
Vincent: E perché no?
Jules: I maiali sono animali schifosi, io non mangio animali schifosi.
Vincent: Sì, ma la pancetta ha un buon sapore, le braciole hanno un buon sapore…
Jules: Ehi! Un topo avrà anche il sapore di torta alla zucca ma non lo saprò mai perché non lo mangio quel figlio di puttana. I maiali dormono e grufolano nella merda, perciò sono animali schifosi, e io non lo mangio un animale che si mangia le sue feci.
Vincent: E il cane allora? Il cane si mangia le sue feci.
Jules: E perché? Io mangio i cani?
Vincent: Sì, ma tu consideri il cane un animale schifoso?
Jules: Non arriverei al punto di definire un cane “schifoso”, è sicuramente sporco, ma un cane ha personalità, è la personalità che cambia le cose.
Vincent: In base a questa logica se un maiale avesse maggiore personalità non sarebbe più un animale schifoso, è così?
Jules: Be’, dovrebbe trattarsi di una maialina super affascinante! Insomma, dovrebbe essere dieci volte più affascinante della Piggy dei Muppets, mi sono spiegato?!

Vincent Vega e Jules Winnfield, Pulp Fiction

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È prassi consolidata, nel linguaggio comune, utilizzare gli animali come metafore di ogni più laido, spregevole, ottuso vizio o inclinazione umana. Un’abitudine che si perde nella notte dei tempi e che rinsalda, attraverso il linguaggio, l’incolmabile distanza esistente tra “noi” e loro, sottolineando il confine che dovrebbe proteggerci da qualsiasi residuo di animalità e insufflare nei nostri polmoni lo spirito divino – null’altro che l’idealizzazione del nostro concetto di umanità, magistralmente sintetizzata dalla voce di Amleto, principe egocentrico e nichilista per antonomasia, quando afferma:

“Qual capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle sue facoltà! Quale espressione ammirabile e commovente nel suo volto, nel suo gesto! Un angelo allorchè opera! Un Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! Re degli animali!”

L’Uomo, con la U maiuscola, non ha mai smesso di ergersi ad essere divino sopra la moltitudine degli altri animali, descritti perlopiù in termini dispregiativi e utilizzati come metafore delle peggiori caratteristiche umane: si può dunque essere stupidi come un allocco, un asino o un baccalà, vuote e insulse come un’oca o una gallina; indegni e spregevoli come un verme o una serpe, ignoranti come un asino o sgradevoli come una scimmia, promiscue come cagne, vacche e troie, sporchi e ingordi di cibo (e di sesso) come i maiali.

Di tutti gli animali vilipesi nelle proprie caleidoscopiche, articolatissime e spesso (per noi) misteriose esistenze, il maiale ha sempre rappresentato il più vituperato.

Che venga considerato un bene sfruttabile al 100% (“del maiale non si butta via niente”), o intoccabile (come uno degli esseri più impuri che abbiano calcato questa terra), il maiale è la rappresentazione e la quintessenza di tutto ciò che è laido, oltre ogni limite di accettabilità. Il maiale che vive nel fango, il maiale che nei propri escrementi si rotola e pure mangia tutto quello che gli capita a tiro… persino i cadaveri! Il maiale aggressivo, sessualmente ingordo, che pare incarnare col suo corpo grasso e la pelle rosata, così tremendamente simile alla nostra, tutto il male del mondo… del resto, non è forse scritto – nelle cosiddette sacre scritture – che dio mandò addirittura degli spiriti immondi in un branco di porci? E non è l’epiteto del porco che designa la bestemmia più intollerabile per chi crede in quel dio?

Dunque “porco” è diventato, suo malgrado, l’appellativo per designare un essere umano di sesso maschile dagli appetiti sessuali eccessivi e incontenibili, di cui farebbero le spese, in primis, le malcapitate donne che dovessero incontrarlo sulla propria strada. Immagino che sia questo il motivo per cui l’immagine del maiale è sembrata perfetta a chi ha realizzato le grafiche per la promozione del Free Ink 2018, festival itinerante che negli anni ha ospitato tatuatori, fumettisti, serigrafi e street artist. Un maiale sporco di sangue e sofferente (immagine per nulla lontana dalla realtà della morte nei mattatoi di miliardi di suoi simili) che porta sul corpo, ad onta, il nome delle “sue” colpe –  discriminazione, sessismo, patriarcato, omofobia –  ed è cavalcato, come in un rodeo, da una persona (di genere abbastanza indefinito ma nella quale sono comunque identificabili alcuni tratti femminili) che cerca di dominarlo e finirlo.

Molte femministe antispeciste sono rimaste inorridite di fronte a questa rappresentazione realistica e violenta: ennesimo esempio di come, nonostante il grande lavoro di decostruzione di simboli e delle parole messo in campo dal femminismo contro le discriminazioni di genere, appena si valica il confine di specie tale attenzione diventa nulla, inesistente.

A tale proposito è stata scritta una lettera dalle compagne, i compagni, lu compagnu, _ compagn_ del Tavolo interregionale TCTeSU nella quale si sottolinea come

“Tale immaginario utilizza una narrazione crudele non lontana dalla realtà di sofferenza a cui questi animali vengono sottoposti. I/le maial* sono infatti fra gli animali non umani i più vilipesi, soggetti di cui “non si butta nulla”, fatti nascere per diventare tutto (dal pennello, al prosciutto, dalla colla alla valvola cardiaca). Con l’uso di questa metafora non si fa che rimandare al maiale come animale sporco, viscido, cattivo, violento, quasi a giustificare la sua assoggettazione e conseguente eliminazione.

Ci indigniamo sovente per certi stereotipi usati in senso spregiativo e denigratorio, ma, quando si tratta di animali non umani, alcuni pregiudizi riemergono anche laddove proclamiamo di volerli combattere per poi svanire in un piano astratto e strumentale in cui la sofferenza reale si perde.”

A fronte di un’argomentazione chiara ed esposta in maniera molto pacata e dialogante, ho personalmente trovato assai tiepida e politicamente neutra la risposta:

“Abbiamo letto con attenzione e interesse la vostra lettera che ci invita a una riflessione circa la locandina dell’evento Free Ink 2018. Pensiamo che le tematiche e la lettura della metafora che ci proponete sia molto stimolante rispetto a un dibattito spesso poco interiorizzato sullo sfruttamento degli animali non umani e sull’uso che ne facciamo, sia nel nostro linguaggio verbale che in quello grafico.

Accettiamo le critiche perché per tutt* noi sono state occasione di riflessione e crescita personale e collettiva che ci offrono nuove lenti con cui leggere la grafica e il messaggio che questa veicola.
Sappiamo quanto la decostruzione di stereotipi e, ancor di più, la costruzione di nuovi immaginari comporti un lavoro complesso, faticoso e sempre in divenire che ci riguarda tutt* e che dunque non può che vederci tutt* insieme camminare su nuovi percorsi in cui sia sempre più possibile praticare l’intersezionalità delle lotte.”

Insomma, “grazie per averci contattato, forse in futuro prenderemo in considerazione le vostre opinioni” (o più semplicemente, diamo una risposta funzionale a depotenziare la  protesta, e tutto finisce lì).

L’unico atto politicamente significativo sarebbe stato cambiare immagine, non citare a vanvera, come sempre, “l’intersezionalità” (tanto utile a farci sentire eroine senza macchia… e così multitasking!). Perchè se questa immagine doveva simboleggiare un evento che vuole andare “al di là degli stereotipi”, come recitano alcuni slogan utilizzati per promuoverlo… ebbene, l’obbiettivo è stato mancato del tutto!

Se non altro, questa immagine ci ha ricordato, se ve ne fosse ancora bisogno, che l’inclusione delle tematiche antispeciste nel movimento femminista – e nei movimenti umanisti in generale – è ancora ad uno stadio puramente nominale: infatti, basta grattare la superficie del “politicamente corretto” per vedere riaffiorare i soliti stereotipi, sempre pronti a sfidarci e sfidare il nostro desiderio di un mondo differente: un mondo più equo e più giusto, per tutti i generi e per tutte le specie, un mondo dove nessun* imbavaglia, domina e riduce al silenzio nessun*. Non certo un mondo dove la rivalsa di chi è oppress* passa attraverso la trasformazione in oppressor* di chi è più debole, come nell’immagine scelta per questa edizione del Free Ink 2018.

Peraltro, un’occasione persa di mostrare che un altro genere di comunicazione è davvero possibile, che dall’elaborazione politica dei movimenti possono scaturire nuovi e dirompenti immaginari capaci di scardinare vecchi e stantii luoghi comuni.

Immagini come questa, ad esempio:

machistas

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Sullo stesso tema puoi leggere:

NUDM: Basta al linguaggio specista!

Verso un femminismo antispecista

Angela Davis è vegana, e fa il collegamento tra liberazione umana e animale

Intervista a Melanie Light, regista del film horror vegfemminista THE HERD (LA MANDRIA)

 

L’altr* “altr*”

di Vinamarata “Winnie” Kaur, originale qui.

Le persone intorno a me

cercano di definire la razza in termini di bianco o nero,

mi guardo…

In agguato tra i codici colore di ciò che è considerato “normale”.

Mi rivolgo al femminismo,

E vedo il movimento femminista occidentale ancora pieno di razzismo e specismo.

Mi sento allo stesso tempo inclusa ed esclusa.

Mi chiedono “Che cosa sei?”

Sono bianca o sono nera?

“Forse nessuna delle due, o forse entrambe; non sono affari tuoi “, rispondo.

Chi sono io e a quale movimento di giustizia sociale dovrei rivolgermi?

Gli altri impareranno mai a guardare oltre la mia Carne Bruna

E incanalare i loro chakra lontano dalle mie apparenze esterne?

Vedo persone intorno a me

Fumarsi e bersi vita e salute.

Socializzano nell’estasi degli allucinogeni

E vanno fiere delle bistecche grigliate ai barbecue estivi, mentre si burlano di vegetarian*e vegan che non condividono i loro piaceri carnali.

E mi guardo… Una femminista decoloniale, astemia, grassa, pelosa, vegan, isolata ed esclusa da quei circoli,

Isolata in compagnia dei miei libri.

Mi rivolgo a TV e film,

che mi ridicolizzano un’altra volta, con il loro sguardo bianco e le pubblicità che fanno vergognare del proprio corpo…

Chi sono io, se non l’Altr* “Altr*” in questa terra delle opportunità, unita eppure divisa?

Chiusa nei pochi spazi liminali che posso chiamare “casa”

Continuo a essere oppressa

Dalle catene stratificate dei binarismi trincerati nell’eteropatriarcato cis-maschio bianco,

Senza un’identità riconoscibile…

E che il Dipartimento della Sicurezza Nazionale ha chiamato, in un’occasione, straniera non residente

E ora chiama residente permanente,

Ancora spogliata del pieno riconoscimento assegnato alla sua “cittadinanza umana”.

Porto in me lo spirito dello schiavo nero,

E un corpo alimentato da piante,

E spargo la notizia che…

Sono diversa e senza un’identità,

Sono vegana e femminista non occidentale,

E va bene così.

Occupo i margini e le sfumature di questa società ossessionata dalla carne e dal colore,

Non solo a causa delle mie scelte alimentari o per l’invisibile purdah* che indosso sulla mia pelle,

Ma a causa della mia soggettività e delle esperienze vissute.

Chi dà a chicchessia il privilegio di escludermi dai limiti della “normalità”

E costringermi a classificarmi come bianca o nera / femminista o vegana?

Mi rifiuto di identificarmi come una o l’altra…

Perché #BlackLivesMatter, #BrownLivesMatter, #TransLivesMatter, #IntersexLivesMatter, #NativeLivesMatter e #NonHumanLivesMatter.

E non si dovrebbe più consentire a bianchezza, colonialismo e specismo di definire le nostre relazioni con i nostri corpi marginalizzati;

Sono una femminista vegana intersezionale, non bianca, asiatica del sud,

E queste sono parti irrinunciabili della mia identità multisfaccettata

Per le quali continuerò a lottare,

Fino al mio ultimo respiro.

* La purdah o pardaa è la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. Essa si attua in due modi: segregazione fisica dei sessi o imposizione alle donne di coprire i loro corpi al punto di nascondere la pelle e le loro forme.

 

La polizia di genere e la donna vegan

Disclaimer: Sebbene sia abbastanza critica rispetto ad alcune delle tesi proposte, ad esempio il supposto apporto “femminile” delle attiviste, questo articolo presenta spunti interessanti di una critica che si potrebbe estendere alla maggior parte dei movimenti sociali. Ho deciso dunque di proporne la traduzione (originale qui.)

Buona lettura!

***

Utilizzo da sempre il mio account Facebook come strumento utile per l’attivismo sociale. Aprirsi pubblicamente su Internet, uno spazio creato da uomini per uomini, può essere pericoloso per qualsiasi donna. La donna vegan, tuttavia, deve affrontare ulteriori sfide. La maggior parte dei miei post sull’antispecismo attira l’attenzione di amici e conoscenti uomini arrabbiati o paternalistici, determinati a spiegarmi dove sbaglio nei miei post e perché non avrei dovuto pubblicarli. Sono stata spesso accusata di esagerata ostilità (o malattia mentale), a causa della mia franchezza in merito all’oppressione degli Animali Non Umani. Ho notato che i miei post su cultura dello stupro e pornografia hanno incontrato reazioni simili da parte di utenti di sesso maschile. Stranamente, i post su razzismo, classismo e diritti dei lavoratori (probabilmente argomenti più neutri rispetto al genere) hanno ricevuto poca o nessuna attenzione. Era come trovarsi perennemente in conflitto con uomini determinati a insegnarmi come essere una vera attivista (o, piuttosto, una vera signora) riguardo a questioni che sfidavano il loro privilegio.

Eppure, su Facebook ho trovato anche sostegno. Facebook mi ha aperto le porte di una più ampia comunità vegan. Mi ha permesso di fare rete e collaborare con attivist* di tutto il mondo. Ovviamente, come in qualsiasi spazio Internet, il trolling è stato spesso un problema, così come il feroce mantenimento dei confini “dentro al gruppo” / “fuori dal gruppo”. Quando infine sono diventata esplicita in merito alla mia intersezionalità e opposizione alle tattiche violente, ho iniziato a sospettare che le mie interazioni negative con i compagni attivisti riflettessero in realtà anche l’oppressione patriarcale.

All’inizio credevo si trattasse semplicemente di un conflitto a livello teorico. Avevo collaborato a lungo con un’organizzazione di base a maggioranza maschile, che si vantava del proprio approccio “razionale” all’antispecismo. Dopo circa un anno di interminabili dibattiti terminati con il mio venir bollata come “irrazionale”, ho tagliato i ponti con l’intero gruppo. Avevo osato suggerire che le esperienze delle donne sono fondamentali per qualsiasi campagna destinata a porre fine all’oppressione. Avevo osato sostenere che forse le donne stesse sarebbero le più adatte a condividere quelle esperienze e dare loro un senso. Il femminismo, avevano sentenziato, era un insulto al progetto razionale antispecista. Alcuni mesi dopo, scrissi un pezzo sul mio blog condannando l’appropriazione patriarcale del femminismo. Un teorico di spicco dichiarò in quell’occasione sulla sua pagina Facebook che

  1. Gli uomini possono essere femministi e suggerire altrimenti è sessista, e
  2. Solo i vegani possono essere femministi.

In altre parole, gli uomini stavano, ancora una volta, definendo il femminismo. La risposta al mio pezzo è stata assolutamente negativa… e maschile. Nell’affrontare la causa femminista, avevo oltrepassato i miei confini di donna in un movimento maschile.

Essere vegan presenta difficoltà e disagi per le donne. Strette tra l’incudine e il martello, le donne vegan – rifiutando il progetto patriarcale dello specismo – devono spesso fronteggiare la reazione maschile, ma allo stesso tempo lottare per ottenere rispetto nello spazio maschile dei movimenti sociali. Protestare contro lo sfruttamento degli altri animali (una relazione di potere e dominio) è, indipendentemente dal genere, un’azione femminista. D’altra parte, plasmare la cultura e sostenere il cambiamento sociale rimane un’attività molto maschile. La femminista vegana Carol J. Adams ha sottolineato come lo sfruttamento degli animali non umani rappresenti una forma di oppressione patriarcale. Sfruttare i corpi di gruppi vulnerabili per il proprio piacere o comodità, è un’estensione della violenza maschile sulle donne. La caccia, il mattatoio e la vivisezione, tre delle principali istituzioni dello sfruttamento di animali non umani, sono costituite principalmente da uomini.

L’ideologia che legittima il mangiare carne, indossare pelle, sperimentare su esseri senzienti non consenzienti e imprigionare o ferire esseri senzienti per divertimento è un’ideologia del dominio. Il ruolo delle donne in questa oppressione sistemica tende ad essere di aderenza ad un dogma e in gran parte il riflesso della propria oppressione. In Brutal: Manhood and the Exploitation of Animals, Brian Luke suggerisce che le donne abbiano storicamente preso parte al progetto specista, cucinando pasti carnei e assecondando il gusto del capofamiglia. La pletora di cosmetici e indumenti di pelle animale commercializzati per le donne, sono legati allo status privilegiato degli uomini. Le donne si adornano con prodotti di bellezza per interpretare il proprio ruolo di oggetti ad uso dello sguardo maschile. Le pellicce vengono spesso regalate dagli uomini alle donne come mezzo per dimostrare il proprio status.

Naturalmente, molte donne hanno ottenuto un certo potere in questo ruolo “sottomesso”. Le donne hanno reso popolare il movimento del biologico grazie alla loro posizione strategica come acquirenti e cuoche. Allo stesso modo, i prodotti femminili spesso non sono testati su animali. Se gli uomini storicamente sono stati coloro che “portavano a casa il pane”, le donne sono state spesso le principali consumatrici. I pubblicitari ne sono sempre stati consapevoli, e questo ha garantito alle donne una certa influenza. E mentre molte donne sono rimaste incastrate nel progetto patriarcale da potenti processi di socializzazione, altre hanno attinto agli stereotipi femminili per esprimere la propria preoccupazione per gli altri animali, ma in un modo che fosse comunque “socialmente accettabile”.

Le donne sono state da sempre ritenute maggiormente predisposte alla cura e affini al mondo naturale, e questo preconcetto ha permesso alle donne dell’era progressista di entrare nella sfera pubblica della difesa sociale come “governanti della natura”. Si ritiene che questa associazione tra donne e natura sia alla base dell’ampia partecipazione femminile (circa l’80%) al movimento animalista. Questi stereotipi sono certamente limitanti. Le attiviste donne sono spesso incoraggiate a dedicarsi ad un attivismo blando, ad esempio al volontariato nei rifugi. Molte si limitano a compiti banali dietro le quinte, e molte vengono ancora incoraggiate a spogliarsi durante le proteste pubbliche e nelle campagne pubblicitarie.

Le donne che si spingono oltre ai confini dell’attivismo appropriato per il gentil sesso, spesso devono affrontare rappresaglie feroci. Le stesse qualità per cui gli uomini sono ammirati – schiettezza, leadership, spirito d’iniziativa, forza – sono considerate negativamente nelle attiviste più coraggiose. Queste donne vengono definite prepotenti, rumorose, odiose e pazze. In una parola, poco femminili. Il ruolo giocato dal genere nelle interazioni tra i sostenitori dei diritti degli animali non umani, il pubblico e gli altri movimenti non è passato inosservato. Studi sociologici hanno dimostrato che molte campagne falliscono in parte a causa degli stereotipi di genere che interpretano l’attivismo femminile come eccessivamente emotivo, irrazionale e inconsapevole della “necessità” dello sfruttamento.

Di conseguenza, il movimento animalista ha avuto la tendenza a glorificare le tattiche maschili (razionalità e azione diretta) e banalizzare quelle considerate femminili (intersezionalità e non violenza). Il professor Steve Best dell’Animal Liberation Front, ad esempio, è fortemente critico nei confronti degli approcci non violenti, o di quello che definisce “pacifismo”. La pacifica educazione vegana, avverte, aiuta gli sfruttatori e facilita le istituzioni oppressive. Nelle conferenze registrate in cui Best sostiene, a voce alta, i pregi di vandalismo, minacce e aggressioni fisiche (e lo fa in stanze piene di donne), non si può fare a meno di chiedersi se il suo vero problema non sia la preponderanza femminile nell’attivismo animalista.

L’attivismo animalista è una forma di protesta politica che spesso ha un’enorme influenza sull’identità di una donna. Ma sfidare l’istituzione dello sfruttamento animale significa sfidare l’istituzione del dominio maschile. Da una parte, le donne che assumono tratti considerati “maschili” nel proprio attivismo incontrano ostilità. Dall’altro, le donne che interpretano il loro genere “in maniera appropriata” non vengono prese sul serio a causa della loro femminilità.

Molt* studios* hanno criticato l’oggettivazione sessuale delle attiviste messe in atto dalle campagne PETA, ma solo una manciata ha problematizzato il sessismo che struttura il movimento nel suo complesso. E un numero ancora minore di attivist* si è espresso in merito alla discriminazione e alla polizia di genere.

L’esperienza femminile viene per lo più omessa dai discorsi relativi alla liberazione animale. Anche le politiche antirazziste tendono ad essere ignorate in ambito animalista. Un post del 6 giugno 2013 su un sito web antispecista, Free From Harm, invitava i lettori a “aiutare a fermare la pratica del “live sushi”, definita “barbara”, “volgare” e “una vergogna per il popolo giapponese”. Ho risposto suggerendo che una simile campagna può avere il risultato di rafforzare il razzismo strutturale. Sensazionalizzare atti di crudeltà specifici commessi da persone non bianche incoraggiano il pregiudizio e facilitano il senso di superiorità bianco. Ricevetti una risposta molto simile a quella che ebbi in occasione del mio post contro il sessismo. Molti attivisti, per lo più bianchi, mi attaccarono brutalmente, accusandomi di “giocare la carta della razza” per creare intenzionalmente problemi. Uno mi ha anche diagnosticato un disturbo mentale.

Di converso, la razza gioca un ruolo fondamentale, e le persone di colore sono spesso strumentalizzate. Difatti, le più becere espressioni di razzismo (ad esempio la schiavitù) sono usate come termine di paragone dall’antispecismo. Tuttavia, come ha spiegato la studiosa vegan femminista Breeze Harper, le esperienze quotidiane di razzismo vissute dalle persone di colore vengono ignorate, o negate, negli sforzi di sensibilizzazione vegani. Le organizzazioni più importanti prestano poca o nessuna attenzione alla realtà del razzismo ambientale, ai deserti alimentari e alla lotta antirazzista. Mentre Harper e altre donne vegan di colore hanno parlato di questa marginalizzazione, il movimento animalista tende ad operare come se ci si trovasse in una società post-razzista dove la schiavitù e la discriminazione appartengono al passato. Questa posizione post-razzista presuppone che tutt* abbiano lo stesso accesso alle alternative vegan, e che le persone di colore di oggi siano disconnesse dalla propria storia di colonizzazione e razzismo.

La storia ci ha mostrato che le donne possono dimostrarsi una forza potente nell’attivismo per il cambiamento sociale. Eppure, nell’arena dei movimenti sociali, quali tattiche e strategie siano legittime e utili è ancora deciso dagli uomini (e dalle donne socializzate a sostenerli). Il movimento animalista presenta un ulteriore livello di complessità, in quanto lo specismo è una propaggine del patriarcato e il movimento stesso conserva una gerarchia di comando patriarcale. La polizia di genere e l’omissione della critica femminista ha la sfortunata conseguenza di rafforzare gli stereotipi sessisti e limitare i potenziali contributi delle donne. Questa omissione rende difficile costruire ponti verso gli altri movimenti sociali. In definitiva, la concezione del movimento rispetto all’oppressione è frammentaria, e l’antispecismo rischia di essere tutto fuorché inclusivo.

Perché l’umanità è carnivora?

Articolo originale qui.

Sebbene le conclusioni finali del libro di Florence Burgat sembrino suggerire che non possa esistere una società umana capace di disattivare la norma sacrificale – aspetto con il quale non mi trovo in accordo – la tesi centrale proposta mi è parsa molto interessante, motivo per cui ho deciso di tradurre l’articolo ad esso dedicato. Buona lettura!

Perché l’umanità è carnivora? 

Gli esseri umani non uccidono per mangiare carne, ma mangiano carne per uccidere: questa è la tesi della filosofa Florence Burgat. 

Da almeno due o tre decenni la questione animale non è più appannaggio delle/gli attivist* ambientalist* o vegetarian*. Da allora, ha dato origine a un nuovo campo di ricerca in ambito umanistico, la “filosofia animale”, della quale Florence Burgat è una delle principali rappresentanti in Francia.

Nel 2012 avevamo già scritto del suo libro Un’altra esistenza. La condizione animale, che può per molti versi essere considerato come la base filosofica del suo nuovo libro, L’umanità carnivora. Nel libro precedente, l’autrice argomentava intorno a quella verità fondamentale secondo cui “gli animali vogliono vivere, possono essere felici e apprezzare l’esistenza”; sono pertanto dotati di vita, e hanno quindi la capacità di sperimentare l’esperienza vissuta. Sono soggetti del proprio vissuto.

L’industrializzazione dell’assassinio

E’ dunque importante chiedersi il motivo per cui l’umanità è diventata carnivora a livello industriale. Perché ha organizzato l’industrializzazione della messa a morte? E ancora: perché nasconde così ostinatamente il fatto che mangiare carne comporti necessariamente l’uccisione di individui che vogliono vivere? In quest’ultimo libro, tuttavia, la domanda posta da Françoise Burgat non è strettamente morale: non si tratta di indignarsi del male che l’umano causa agli animali.

Il suo libro non è un manifesto. L’autrice, piuttosto, si interroga sul senso e sul significato, per l’umano, di definirsi come mangiatore di carne; domanda “ancora più legittima dal momento che l’umanità ha istituito questo sistema quando poteva farne a meno.” Le alternative alla dieta a base di carne sono ormai numerosissime e conosciute; e se si considera, tra l’altro, che la fame endemica è in gran parte causata dall’utilizzazione di terreni e altre risorse indispensabili per l’allevamento, la domanda si fa ancora più pressante: perché diamine l’umanità è carnivora?

Porre questa domanda significa già determinare un certo tipo di risposta. Se fossimo carnivori come siamo implumi, la questione non si porrebbe nemmeno. Ma, giustamente, Florence Burgat respinge gli argomenti naturalistici secondo i quali la dieta a base di carne è la condizione biologica dell’uomo.

Proprio all’opposto, per lei – e questa è una tesi fondamentale – l’umanità si è costituita come mangiatrice di carne: è stata una decisione consapevole. ‘Decisione’, non nel senso di un accordo cosciente e deliberato, ma nel senso che possiamo concepire il carnivorismo come l’instaurazione di un sistema che ha un significato diverso da quello biologico. Parlare di decisione è un metodo comodo per dare conto del senso della realtà esistente – esattamente come la finzione dello stato di natura in Rousseau aiuta a capire lo stato di società.

Caccia, sacrificio e cannibalismo

Quindi, se si tratta in tal senso di una decisione in questo senso, quale ne è il motivo? Le analisi di Florence Burgat sono molte, complesse e a volte un po’ contorte. L’autrice si confronta a lungo, e in modo critico, con numerose ipotesi su caccia, sacrificio, cannibalismo. Ma la tesi che emerge è, letteralmente, sorprendente: non uccidiamo per mangiare, mangiamo per poter uccidere. “Mangiare carne non è forse il fine, mentre l’uccisione degli animali ne è semplicemente il mezzo? Questo almeno è come le cose appaiono ad un primo sguardo. Ma può darsi che tale tesi vada ribaltata e che la dieta a base di carne sia il mezzo dissimulato di istituire un massacro, la cui scala aumenta con le possibilità tecniche e la cui esecuzione è minuziosamente pianificata. “

L’uccisione degli animali non sarebbe un danno collaterale del nostro carnivorismo, ma il suo stesso scopo. Un modo per affermare la nostra superiorità metafisica. È in questo senso che l’istituzione della legge carnivora è una decisione: se mangiare carne, in passato, rappresentava probabilmente una necessità biologica dettata dalle circostanze, tale pratica è diventata un’istituzione che instaura un certo tipo di rapporto con gli animali e l’animalità (in noi?). Tutte le spiegazioni che fanno riferimento a motivi culinari o di sapore (la mangio perché è buona) danno già per scontato che l’animale si possa mangiare, contribuendo a cancellare la presenza dell’animale nella carne. Così tali spiegazioni nascondono ciò che per Burgat è la ragion d’essere del carnivorismo: “normalizzare un certo tipo di rapporto con gli animali, che definisce a sua volta l’umanità.”

Fare a meno degli assassini di massa

In un emozionante capitolo finale, l’autrice mostra come l’umanità potrebbe mantenere il posto della carne nel proprio immaginario facendo a meno dell’assassinio di massa animale, ad esempio sviluppando nuovi succedanei vegetali della carne (noti già dal X secolo in Cina), o la carne in vitro prodotta in laboratorio. Una soluzione che suscita palesemente disgusto, un disgusto che però paiono non causare i polli di batteria pieni di lividi, che invece siamo generalmente pronti a considerare molto naturali; smascherando quei punti ciechi che determinano il nostro rapporto con la carne, e che le scienze umane non hanno finito di decifrare.